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venerdì, 19 Aprile 2024

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Don Massimo Mansani, nuovo parroco di Pratovecchio

di Mauro Meschini – Dopo tanti anni don Guido ha lasciato la guida della parrocchia di Pratovecchio e, da Rufina, è arrivato Don Massimo Mansani. Lo abbiamo incontrato a pochi giorni dalle festività natalizie.
Sappiamo che viene dalla parrocchia di Rufina. Ma prima? «Il Seminario. Perché Rufina è stata, per ora, la prima esperienza. Sono uscito dal Seminario e sono stato inviato a Rufina come diacono, poi viceparroco e parroco. In tutto 6 anni di seminario, 19 anni a Rufina e adesso sono qua».
Cosa ha caratterizzato l’esperienza a Rufina e quali differenze vede dopo aver trascorso questo primo periodo a Pratovecchio? «Rufina è una delle più grandi parrocchie della Diocesi, ha più di 5.000 abitanti, è abbastanza vicina a Firenze. È un paese di pendolari vicino alla città che sente la sua influenza, e questo porta, soprattutto i giovani, a muoversi spesso. Non ha quindi le caratteristiche di Pratovecchio che è molto più raccolto ed è molto più paese. Rufina è più anonima, più grande, meno sensibile alle problematiche del paese perché molti abitanti vi dormono e basta. Rufina è la città del vino, con molte aziende che ancora lo producono e lo vendono. Ha una grande storia e ha celebrato nel 2015 il centenario della nascita del comune. Poi ha una grande tradizione politica di stampo comunista, di sinistra, questa è un’altra differenza rispetto a Pratovecchio, uno dei pochi comuni cosiddetti “bianchi”. Rufina non ha mai avuto un’amministrazione democristiana, poi ora le cose naturalmente stanno cambiando… questa è comunque una caratteristica che arricchisce Rufina perché le parti diverse, le culture diverse, l’orientamento politico diverso, la dimensione religiosa e non religiosa del paese sono anche state un arricchimento per il paese stesso. Rufina è composta da tante famiglie giovani è quindi una realtà che avrà un futuro, ci sono tante associazioni, il lavoro non manca. Certo non mancano problematiche sociali emergenti, ma questo accade in tanti paesi. Ci sono diverse famiglie, straniere e non straniere, che non riescono ad arrivare alla fine del mese, per cui come qui la distribuzione dei pacchi alimentari è importante. In questo l’Amministrazione e la Caritas si adoperano molto e sotto questo aspetto Rufina e Pratovecchio sono molto simili».
Una bella fotografia che mette in evidenza similitudini e differenze. Entrando più nello specifico del ruolo di parroco, sembra che la sua intenzione sia quella di sollecitare una maggiore partecipazione e un maggiore coinvolgimento della comunità. Superando anche la tradizionale separazione tra parroco e fedeli che si è sempre vista nella Messa domenicale… «Si, con tutta la stima verso Don Guido, che conosco da 40 anni, verso Don Carlo e gli altri sacerdoti, forse qui era necessario un rinnovamento nello stile della celebrazione e della pastorale. In altre zone alcuni passi sono già stati fatti, per cui qui posso sembrare tanto innovativo, ma di fatto non lo sono. Per lo stile che ho imparato, e che devo continuare ad alimentare in questa comunicazione più diretta, devo ringraziare Rufina dove le persone mi hanno aiutato e mi hanno anche dato dei consigli. Così mi ritrovo qui a mettere in pratica quello che, dopo 20 anni, ho imparato. Naturalmente questa esperienza deve maturare e va adattata al luogo in cui mi trovo, ma vedo che le risposte sono già buone. L’idea non è quella di far colpo sulla gente, ma di creare un rapporto vero e di proporre un cammino autentico da fare insieme. Siamo davvero tutti in cammino, ognuno con il proprio ruolo, oppure, usando un termine più specifico, ognuno nel proprio ministero. L’altra cosa importante è valorizzare i giovani, usiamo dire che sono il nostro futuro, ed è vero. Quindi come ai giovani si dà il cibo, si fa fare sport, si dà la cultura e l’educazione non possiamo lasciarli digiuni dell’aspetto spirituale che è la cosa francamente più importante. Direi che tante problematiche, tante crisi, i problemi che talvolta sembrano irrisolvibili trovano le motivazioni nella mancanza di un Dio, di un Dio messo da parte. I giovani poi sono quelli che stanno crescendo si stanno formando un pensiero, capacità critica, capacità di costruirsi la vita, capacità di affrontare le tante problematiche che la vita gli pone e lasciarli digiuni, o meglio lasciarli solo con l’ABC della fede, con i ricordi infantili della fede, è troppo poco. Ci sono troppi adulti che si ricordano Dio al catechismo e che hanno questo lungo periodo di silenzio della fede e dell’esperienza religiosa, qualsiasi esperienza religiosa. Per cui invece di aspettare gli adulti che si ricordano le cose di 30/40 anni prima lavoriamo in prevenzione, curiamo i bambini, ma anche gli adolescenti e i giovani».

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Questo modo di rapportarsi è anche facilitato, ispirato, da quella che adesso è la Chiesa di Papa Francesco che sta portando anche chi era lontano ad avvicinarsi e interessarsi… tra l’altro sembra che sia l’unico “estremista”, in senso positivo, che dice cose su cui tutti tacciono. Questa presenza aiuta, ma vedere le diffidenze e gli ostacoli che vengono posti su questo percorso nuovo che impressione fa? «Io credo che il Papa abbia fatto un lavoro meraviglioso, che avremmo dovuto fare noi. Cioè avvicinare i lontani porre un vangelo così com’è, tornando all’essenziale. Noi invece l’abbiamo purtroppo arricchito, ma in senso negativo, abbiamo appesantito questo Vangelo con regole, con moralismi, con precetti. Lui è entrato come una burrasca, spiritualmente come un terremoto nella vita di ognuno, ma anche comunitariamente nella Chiesa mondiale e nella società mondiale. Tanto che il suo parlare e il suo apostolato hanno colpito positivamente, hanno risvegliato, hanno stimolato le coscienze di tanti che noi definiamo non praticanti o addirittura non credenti. Ed è così, perché il Vangelo parla a tutti, questo viene ricordato a noi sacerdoti e alla Chiesa. Questa è una grande provocazione e uno stimolo per noi, per tutti i nostri collaboratori e purtroppo c’è una frangia della Chiesa che non accetta questo e vede questo Papa e il suo modo di vivere e di porre il Vangelo come qualcosa che contraddice il Vangelo stesso e la Chiesa. Quello che posso dire è che il Papa ci costringe a dire: non ci blocchiamo sulle regole, non ci blocchiamo sulle tradizioni così come sono, la verità, e soprattutto la presenza di Dio, vanno oltre a tutto questo. Infatti Gesù cosa ha fatto, ogni volta che c’era chi metteva in evidenza regole, precetti, sanzioni; spostava l’attenzione su altro, cioè sulla persona. Tutti i peccatori che incontra diventano i soggetti da amare e da prendere per mano, da accogliere, aiutare e mettere in cammino. Papa Francesco ci dice questo, niente altro. In realtà il suo messaggio è molto scarno anche se poi si declina in tanti modi e verso tante situazioni, ma alla fine il concetto che esprime è molto semplice e direi comprensibile ai più, a tutti quelli che hanno un cuore semplice, umile, potrei dire alla gente normale che cerca la propria pace, la serenità, che cerca e vuole che le cose vadano bene e si impegna per questo e in Papa Francesco, al di là dell’appartenenza religiosa, trova finalmente le risposte che cercava».
Tra i temi su cui Papa Francesco è intervenuto c’è il rapporto tra le chiese, tra le religioni e la difesa degli ultimi. E gli ultimi oggi sono quelli che sono imprigionati in Libia o che sono arrivati sui barconi. È notizia di oggi che a Sesto Fiorentino, su un terreno ceduto dalla Chiesa, sarà costruita la prima moschea in Toscana. Questo è un segnale che va verso la direzione che naturalmente si dovrebbe seguire. Come facciamo a fare diventare normale, non solo il rapporto tra religioni diverse, ma anche quello con chi ha il colore della pelle diverso? «Il Papa in questo ha dato un ulteriore stimolo e a posto le condizioni perché noi nel piccolo possiamo agire in maniera anche più concreta. Io sulla moschea sono d’accordissimo e sono in linea con il Papa, penso, se credo che aver paura degli altri non serve a niente. Il problema è condividere riconoscendo la verità degli altri. Quindi le cose che non vanno, le cose che vanno, ma soprattutto incoraggiando le cose che vanno bene cioè mettendo in evidenza ciò che ci unisce rispetto a ciò che ci divide. Naturalmente c’è parte della Chiesa cattolica, e parte della cultura cattolica e non, che non sono d’accordo su questo, quando dici la parola musulmano cambiano gli sguardi e figuriamoci se alcuni sono d’accordo sulla costruzione di una moschea. Il fatto che in alcuni Stati islamici non si possano costruire chiese, non ci può permettere di non costruire moschee negli Stati a maggioranza cattolico-cristiana, anche perché noi siamo i primi, e Gesù ce lo insegna, che dobbiamo accogliere. Gesù ha incrociato e incontrato di tutto e ci ha insegnato cosa significa essere cristiani e quindi Chiesa. Perché dovremmo noi escludere alcuni? Certo la critica va fatta, le denunce vanno fatte, ma la cosa principale poi è conquistare le persone non allontanarle e dividerle da noi. Questa è la missione cristiana. La cosa che inquieta e che mi preoccupa è che su questo, parlando delle diversità di razza, cultura, religione, mentre un tempo l’ansia missionaria spingeva tanti ad andare altrove a cercarli per portare Gesù, adesso che li abbiamo in casa la Chiesa, denotando una grande debolezza, invece di risvegliarsi e rimettere in atto, qui, questa chiamata alla missione si ritira paurosa con cinismo, con critiche eccessive e questo la indebolisce e la addormenta. Il Papa su questo va deciso, ci aiuta sicuramente a restituire alla Chiesa il volto di Gesù, un volto aperto, libero, coraggioso».
A gennaio si fanno i propositi per il nuovo anno. Quali sono i tre temi e obiettivi principali su cui concentrare l’impegno della Comunità parrocchiale di Pratovecchio nel 2018? «A Pratovecchio intanto devo riconoscere una forte coesione tra le varie parti del paese dove la parrocchia è sempre stata il fulcro centrale, sono però abbastanza assenti i ragazzi adolescenti e i giovani, quindi il primo obiettivo è quello di pensare a questo anello mancante. Il secondo aspetto, che forse dipende dalla collocazione geografica, è legato al distacco sia da Firenze che da Arezzo. Pratovecchio ha bisogno di collegarsi con l’esterno, per esempio con le altre parti della Diocesi al di là della Consuma. Dobbiamo fare uno sforzo in più in questa direzione per permettere al paese e alla parrocchia di respirare. Per il terzo adesso dovrei pensarci…».
Potrebbe essere anche il fatto di contribuire alla costruzione di un Comune come Pratovecchio Stia che ancora forse deve completare la sua unione effettiva… «Per questo mi hanno detto ci vorranno qualche decina di anni… perché sono cose lunghe, anche se votate a larga maggioranza. Ma una cosa è il desiderio, una cosa è una situazione vera. Sono due paesi con tradizioni molto diverse… ora io non credo che si debba diventare una cosa sola, ogni paese deve mantenere le sue caratteristiche, l’intelligenza di diventare un comune unico è quella di lavorare tutti insieme. Non si possono rinnegare e le proprie tradizioni e si deve andare avanti riconoscendo le diversità e considerandole una ricchezza. Anche questo argomento caro al Papa. Si è unito dal punto di vista amministrativo, ma questo deve essere uno strumento che fa del bene agli uni e agli altri e valorizza tutto quello che di buono c’è stato e c’è».

(tratto da CASENTINO2000 | n. 290 | Gennaio 2018)

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