Di Leonardo Previero – Lamentarsi della attuale crisi economica è un atto lecito, diffuso e comprensibile. Anche nel passato i momenti di scarsa circolazione di denaro, di non equa distribuzione delle risorse, colpivano le classi più deboli della popolazione, causando sacche di povertà. Il quadro di una carestia a Est di Firenze, nelle campagne di Arezzo o sulle falde appenniniche poteva essere questo: campi brulli, poderi sterili, boschi bruciati per ronchi o incuria, intere famiglie ridotte a mendicare.
Qui in Casentino, nella nostra valle, non era infrequente incontrare i cosiddetti “miserabili”, persone che con tale termine venivano trascritte nei frequenti censimenti granducali. Il marchio indicava un essere umano questuante, spesso senza dimora, completamente in balia degli altri o di lavori stagionali di nessun aiuto concreto. Ed ecco allora, nelle scritture di un tempo, trasparire frasi del tipo “sta all’accatto”, “miserabile tra miserabili”, “imbecille di mente”, “impotente”. Con questo ultimo termine, che nulla aveva della valenza sessuale odierna, si indicava un uomo o una donna resi da qualche disgrazia invalidi, e dunque incapaci di procurarsi il pane perfino con l’elemosina (“impotenti” in cio’, appunto).
L’individuo povero dell’area casentinese o fiorentina era un essere sovente nomade, che di casolare in casolare veniva spesso accolto con carità cristiana e a cui veniva dato ricetto per la notte accosto ai pagliai, nelle “californie” (magazzini rurali), nelle stalle o sui sagrati delle chiese protetti dai caratteristici colonnati.
Questo viandante all’addiaccio era l’ultimo anello di una piramide sociale in precario equilibrio, un qualcuno sempre in bilico tra l’essere considerato uomo o bestia, anche se incredibilmente ben accolto da un mondo certo più umano dell’attuale, pronto alla comprensione, alla condivisione, all’accettazione sociale, scevro di ostracismo.
Non si contano le confraternite religiose di un tempo che distribuivano il pane ai poveri, non si enumerano per la quantità gli editti granducali che fissavano regalie – esigue ma ben accette – ogniqualvolta una ricorrenza a corte suggeriva una pubblica simbolica buona azione (la nascita di un principe a palazzo, un matrimonio importante, la vittoria in una battaglia, la visita di un Re…).
Nell’area geografica in oggetto erano presenti poi i cosiddetti Spedali, edifici appositamente riservati dalla Chiesa per accudire, seppur temporaneamente, i poveri e gli ammalati senza possibilità.
Socchiudete gli occhi e immaginatevi la scena di un tempo: torme di pellegrini o malati, di miseri o seminudi, accolti sotto gli archi di pietra di queste strutture, protetti di sicuro non da tutte le intemperie ma almeno dalle tempeste, nutriti dal cosiddetto “spedalingo” – oggi lo chiameremmo il “direttore sanitario” – cioè da colui che tramite il podere annesso provvedeva “gli utenti” di cibo e di un sorriso.
Nei casolari sparsi delle nostre campagne, al calar del buio, non erano rari i nostri antenati che accettavano con comprensione un misero viandante a tavola, una donna reietta al proprio desco, magari con i figli, dividendo il poco, il pochissimo che spesso vi era: una polenta, una “pattona”, un piatto di minestra. La povertà – diremmo sempre incombente – anche di altre classi sociali: mezzadri, coloni, fittavoli, permetteva a questi ultimi “più fortunati” di essere vicini a chi ormai non aveva più nulla dalla vita: i “clochards”, i “barboni” di un tempo.
Tabula rasa di tali poveretti avveniva nei mesi di intemperie, nelle carestie più pesanti, nei gelidi inverni dove le cappelle/dormitorio dei cimiteri e i rimessaggi delle bare appositamente approntati a ricovero (vedi per esempio il paese di Stia), erano insufficienti a proteggere totalmente i più disgraziati ancora in vita. Si moriva dunque di fame, di freddo, di tisi, di pellagra, di tifo, di infezioni, di peste. Di sicuro non di solitudine. Gli angeli della carità – chiamiamoli così – erano allora soprattutto confraternite religiose, società autonome legate alla Chiesa, gruppi costituiti di preghiera. Queste istituzioni, oltre ad un concreto aiuto, fornivano anche – nel pio e modesto “pacchetto” – la pietosa pratica della sepoltura nelle fosse comuni a chi veniva ritrovato senza vita per inedia o altro.
Fare un paragone con oggi non è banale, dove tutto questo ristagno sociale è di sicuro stemperato, ma non scomparso, dove i nuovi poveri sono alla vicina porta del condominio anche se spesso non visibili. La strada è comunque ancora il ricettacolo di molti, di troppi, vittime della globalizzazione, dell’indifferenza, della disoccupazione, dell’alcool, del chiudersi o dell’aprirsi di frontiere comunitarie o extracomunitarie.
Incredibile come ancora oggi, a questo veleno esista per fortuna un corrispondente contro-veleno.
Per esempio – tra le molte – vi è l’istituzione dei City Angels: volontari comuni – uomini e donne di ogni ceto, nazionalità e credo – che prestano l’aiuto su strada. E ciò raggiungendo i disperati, i bisognosi, gli “ultimi”, i “nuovi poveri”. E ciò donando spesso un niente che è tutto: un sorriso, un abbraccio, un panino regalato da qualche bar in chiusura serale, o un semplice sorso d’acqua.
I City Angels, i veri e propri Angeli della Città fondati a Milano dal laico Mario Furlan da decenni, noto docente e giornalista, sono oggi una realtà ampia ed in crescita in tutta Italia, una realtà riconosciuta e perfino prestigiosa, in ammirevole equilibrio con le istituzioni: se ne può far parte semplicemente col programmare poche ore la settimana per un’uscita collettiva tra i “miserabili”, tra gli “ultimi”. Un breve corso intensivo di qualche giorno mette la persona volenterosa in grado di scendere “per strada” con altri compagni di caritatevole avventura, alla ricerca di bisognosi e non certo con lo spirito battagliero di fenomeni tipo “ronde” o altri politicizzati estremismi.
Non occorre un fisico particolare, basta un cuore grande. Non occorre mettere mano al proprio portafoglio, ma al serbatoio personale della propria sensibilità. Quella stessa sensibilità (o solidarietà) che spingeva in passato la massaia casentinese ad accogliere accanto al fuoco il viandante bisognoso.
Oggi la parola necessaria è “organizzazione”: se l’angelo di ieri era – per forza di cose – un elemento legato alla Chiesa o al fenomeno delle confraternite sacre, oggi ciò non è strettamente necessario, essendo l’organizzazione in questione – i City Angels – laica, apolitica, apartitica, aconfessionale e sicuramente solidale nonché multietnica.
Poiché per questi volontari tutto è importante, non sono rari nemmeno gli interventi (indiretti) di deterrenza riguardanti i reati di strada: difficilmente qualcuno molesterà un emarginato su strada in presenza dei City Angels. Assai improbabile che uno spacciatore o uno stupratore abbiano cattive intenzioni su terzi, alla vista di un operatore in questione. Si agisce in squadra, in clima amichevole ma determinato, in una divisa di pace che è segno angelico ma anche di passione e protezione: maglietta rossa come il cuore e basco blu come le forze di pace dell’ONU.
Ed ecco dunque – oggi come ieri, in tempi di crisi, tra i tanti fenomeni associativi – il riaffacciarsi del volontariato “sano”, “attivo”, il ripresentarsi di quella vostra preziosa mano tesa che non si tira indietro davanti a niente.
Ah, dimenticavamo di dirvi: chi vi scrive ne fa ovviamente parte: un gruppo di City Angels a Firenze si è appena costituito e uno casentinese sarebbe in futuro auspicabile. Noi insomma ci proviamo. E voi, cari amici?
DIVENTA ANCHE TU UN ANGELO!
Cerchiamo proprio te, un volontario che con poche ore la settimana si rechi a donare se stesso ma, anche e soprattutto, a “ricevere” da chi non ha nulla!
Se vuoi far parte della famiglia dei City Angels dell’area fiorentina telefona per informazioni al numero 389 / 65 51 462.
Il gruppo in città si sta formando!