di Elisa Fioriti – Si è conclusa a fine giugno la mostra “Franco Caporali pittore”, che nelle sale del Centro Creativo Casentino ha visto raccogliersi una nutrita selezione delle migliori opere dell’artista bibbienese, scomparso da pochi anni: un percorso nel e attraverso il tempo, che ne ha ricostruito la carriera, dal Casentino oltre i confini nazionali, in modo inedito, personale, nel segno dei ricordi di quanti lo avevano conosciuto e amato, affinché con questo omaggio anche le nuove generazioni potessero apprezzarlo e incontrarlo, lì, fra le sue tele e i suoi colori. Nell’intervista, il racconto di Luca Caporali uno dei figli e promotore della mostra.
Quando è nata l’idea di dedicare una mostra a suo padre? «Dopo la sua perdita mi sono ritrovato spesso qui, nel suo studio, accanto alla casa che abitava con mia madre; io vivo nella parte soprastante, dove vicino ho il mio studio di architettura. Mi immergevo letteralmente in quel luogo caro, che era stato fucina di idee, laboratorio: dappertutto quadri, disegni, fotografie, carte, appunti, libri… un po’ alla rinfusa, affastellati in un ordine caotico, marchio dell’artista, che facevano affiorare tanti ricordi, attimi di vita insieme. È nel riordinare quel materiale, archiviando documenti e opere, di cui mio padre non era solito tenere alcun registro, ricomponendo via via i pezzi, come fossero i tasselli di un puzzle, che è nata l’idea del progetto: d’accordo con mio fratello, abbiamo pensato di allestire, con le numerose opere che nostro padre ci aveva lasciato, una mostra interamente focalizzata sulla sua attività di pittore».
Perché questa scelta? Di quali altre attività si occupava? «Si occupava sia di pittura sia di architettura e design. Aveva studiato per diventare geometra, indotto a optare per un indirizzo che prometteva immediate e maggiori opportunità lavorative, benché fin da giovane avesse manifestato una spiccata inclinazione artistica e creativa, comunque coltivata ed esercitata negli anni a livello professionale. A Milano, dove ha lavorato per un periodo, ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Brera».
Doppia carriera quindi? «Era un’artista poliedrico. Amava dipingere, ma non lo faceva semplicemente per passione, ne aveva fatto una carriera: partecipava a concorsi di pittura, esponeva le sue opere in mostre personali e collettive, in tutt’Italia e all’estero. Io ho cominciato a seguirlo direttamente, assistendolo sul piano organizzativo negli spostamenti e negli allestimenti, dagli anni ’80, quando ero all’Università. Con mio padre condividevo l’amore per l’arte e per il disegno; dopo il diploma al liceo artistico, ho frequentato l’Accademia anch’io, un anno, prima di proseguire gli studi in architettura. Non ho mai esposto miei lavori, pur continuando a disegnare e dipingere, eppure sono rimasto colpito ritrovando per caso nello studio di mio padre un dipinto ad olio che avevo realizzato all’incirca ai tempi del liceo: probabilmente il quadro gli aveva trasmesso qualcosa, gli piaceva, l’aveva appositamente conservato fra i suoi. È stata una bella scoperta, e una soddisfazione».
Come riusciva a giostrarsi suo padre tra impegni e famiglia? Si riservava momenti solo per dipingere? «Tendenzialmente andava a periodi, alternando, senza trascurare la famiglia, momenti d’intensa attività pittorica (in occasione di un’esposizione, per esempio), ad altri in cui si concentrava nel lavoro d’architetto; abbiamo anche collaborato a dei progetti. Era proprio dotato: aveva una mente creativa, un’ottima percezione degli spazi, unite all’abilità nel disegno dal vero. Non si spostava mai senza i suoi blocchi da disegno, i colori per dipingere. Spesso si metteva ad acquarellare in estemporanea, o faceva schizzi… a penna, pennarello, carboncino… La sua arte scaturiva dall’osservazione: capitava che scorgesse un posto, un soggetto, un volto, un movimento particolare, un gesto semplice magari, usuale ai nostri occhi, tipo mettersi una ciocca di capelli dietro gli orecchi, e lui, catturato dall’emozione, la comunicava subito, quasi con urgenza, traducendo sulla tela o su carta il suo sentire e il suo vedere. Si trattava, perlopiù, di “appunti visivi”, che poi rielaborava in studio, o ne traeva ispirazione per altre opere, con diversa interpretazione».
Si rifaceva a delle correnti pittoriche? «Difficile inquadrarlo in uno stile preciso, definito. Certo nelle sue opere possiamo intravedere gli influssi dei grandi movimenti del Novecento, dei maestri che amava: da Picasso a Modigliani, a Hopper… Le letture, gli studi, le esperienze in giro per il mondo lo hanno forgiato, permettendogli di elaborare uno stile eclettico, assolutamente personale e in continua evoluzione, attraverso la sperimentazione di nuove tecniche e forme d’espressione artistica. Come il mutare dell’uso del colore. Se passate in rassegna la sua produzione, lo noterete immediatamente: a fasi in cui prevalgono i toni di grigio si succedono fasi in cui i colori diventano più accesi, vividi, mentre negli ultimi anni impiegava molto i verdi, i gialli luminosi… tutte scelte intrecciate con gli stati d’animo, i vissuti del momento».
Prediligeva alcuni soggetti o temi? «Non direi che avesse dei soggetti preferiti: la sua produzione annovera paesaggi, figure, ritratti… Ad interessarlo, in generale, era la vita: scene di vita contemporanea. Con uno sguardo attento al sociale e una profonda sensibilità verso le fragilità umane, che trapelano fortemente nella serie di opere in cui è andato a interpretare il tema della maschera, del circo di periferia, i cui protagonisti sono gli ultimi, gli emarginati. Poi erano i luoghi che visitava durante i viaggi a confluire nelle sue opere. Era un viaggiatore nel pieno senso della parola: non faceva programmi, partiva, unicamente, senza limiti di tempo. Andava alla scoperta dei posti, si spostava di zona in zona seguendo delle suggestioni, lasciandosi guidare dalle impressioni che riceveva dall’ambiente intorno. Il viaggio prendeva forma così: a volte aggiungeva una tappa perché durante il percorso era venuto a conoscenza di un evento, una manifestazione, un fatto che lo avevano incuriosito».
Era la pittura a nascere dall’esperienza di viaggio o viaggiava per dipingere? «I viaggi di mio padre trovavano senso e sostanza nella pittura: l’arte ne era il fondamento. Mia madre non mancava di accompagnarlo. Vari dipinti la vedono raffigurata di spalle o tra i passanti. Insieme si recavano spesso in Europa, nel nord, in Scandinavia, e soprattutto in Francia, dove mio padre aveva vissuto e stretto importanti amicizie. A Parigi, a La Rotonde de La Villette, nell’ottobre del 1984, ricordo che allestì una delle sue mostre di maggior prestigio. Mentre l’ultima mostra prima della malattia, intitolata “Nel Paesaggio”, l’ha ospitata il Palagio Fiorentino di Stia: è sempre stato intenso, del resto, il suo legame con il nostro territorio. Di questa mostra ci ha lasciato molte opere, e anche di quella del 2006 a Siena, al Palazzo Comunale, una mostra dal carattere introspettivo, con l’emergere di vedute toscane e scorci boschivi».
C’è un’opera che le è particolarmente cara? «Fra le tante, un ritratto, il mio da bambino, che si trova in casa di mia madre; ha fatto parte della collezione in mostra al Centro Creativo Casentino. Ricordo bene quando mio padre lo dipinse: mi sistemò in una specifica posizione, dovevo restare seduto fermo tenendomi una gamba, fermo finché non avesse finito… Guardandolo anche oggi, sì, mi rispecchio in quel bambino, mi riconosco, ciò nonostante mio padre, nel ritrarmi, ha aggiunto un tocco di vago, indefinito, che agli altri non rende così immediata e univoca l’identificazione: ci si potrebbe scorgere qualcuno di diverso, ciascuno un che di sé stesso».
Dato lo straordinario successo della mostra al C3, pensa di realizzare in futuro un’altra mostra su suo padre? Perché no, in veste d’architetto? «Siamo felici che l’iniziativa, che ha potuto contare sul sostegno entusiastico dell’Amministrazione Comunale e della Fondazione Baracchi, abbia ricevuto dal pubblico una tale accoglienza, positiva e calorosa. Il progetto di una mostra “Franco Caporali architetto” lo avrei anche in cantiere, ma l’allestimento si prospetta ancora più complesso e richiede di esser ben ponderato: se per la mostra di pittura avevo già a disposizione buona parte dei materiali, fra le opere derivanti dalle ultime due esposizioni, quelle di nostra proprietà e quelle che ho ricevuto in prestito, per una mostra sull’attività che mio padre ha svolto in architettura e design ho quasi tutto da reperire e catalogare. Inoltre vorrei affiancare ai suoi disegni un corpus di fotografie, nonché delle videoproiezioni, per migliorare la presentazione visiva e rendere il materiale più fruibile. Servirà tempo, insomma. Ma di fronte a tutti gli amici e conoscenti di mio padre, alle persone che avevano lavorato con lui e che hanno manifestato autentica stima nei suoi confronti, motivo d’orgoglio per la nostra famiglia, ho il giusto stimolo che incentiva il mio desiderio di continuare a organizzare iniziative che lo ricordino. La sua arte diventa un modo per rincontrarlo e riviverlo».
(tratto da CASENTINO2000 | n. 298 | Settembre 2018)