di Fabrizia Fabbroni – Conosciuto da tutti come Beppe, fu detto anche Bistarella o Mosè, oppure Salamandra, nome di battaglia che ebbe quando era partigiano in Pratomagno, per i suoi occhi “bianchi e vispi”. “Guarda lì come la guarda…” dicevano i compagni e il comandante della brigata Pio Borri quando erano “alla macchia” (tratto dell’intervista contenuta nella raccolta fotografica e di memorie “E io ero Sandokan – sguardi partigiani” a cura di Lorenzo Nasi – 2011- al capitolo dal titolo “Salamandra, 19 anni”). E gli occhi vispi, Beppe li ha avuti sempre, animati da intelligenza e vivacità anche quando persero quasi completamente la luce.
A lui è dedicata la seconda edizione (Fruska) del “Canto di Meo, il filosofo di Battifolle in Casentino”, di cui sono autrice, per i suoi racconti vivaci, piacevolissimi, vari, di rara poesia, ripetuti eppure sempre nuovi, che hanno ispirato gran parte del libro. Recita infatti la dedica: “A Beppe Luzzi, memoria della valle”. Uomo del “tramandar parlando” egli si iscrisse in quella tradizione orale che affonda le radici nella notte dei tempi e che, molto diffusa, in Casentino si perpetuava per la voce di tanti fino a qualche anno fa.
Quando ho saputo della sua dipartita, per me incredibile, perché uomini come Beppe sono senza tempo e senza età, ho subito pensato: “Dicono che sei morto, ma che ne sanno loro! Hai esaurito la tua vita biologica come fa una vecchia quercia la cui benefica ombra si estendeva ben oltre i confini del paese o del bosco in cui radicò”. Tutto qui, anima antica, amico caro. Te ne sei andato leggero, quasi danzando, così come hai vissuto. Di balli ne abbiamo fatti tanti là per le piazze e nelle sale dei paesi del Casentino e anche in Romagna: sembrava di volare! E tu guidavi le danze sempre galante e correttissimo. Te ne sei andato a marzo quando fioriscono mandorli, mimose e biancospini a nuvole, mentre in Pratomagno c’è ancora la neve. Al tempo, con gli amici, di questa stagione, andavamo là per la montagna a sentire il profumo dell’erba che cresce mentre resistevano gli ultimi bianchi “cagnoli” ancora ghiacciati. Allora mi insegnavi come si deve camminare sull’erba e sull’ultima neve insidiosa, mi indicavi le tracce che lasciano a terra gli animali e mi guidavi a leggere la vita su quelle tracce.
Poi andavamo alle sorgenti del Solano e ridevamo bevendo al torrente, come fanno i lupi e i caprioli, recitando prima la doverosa litania “acqua corrente, ci ha bevuto il serpente, ci ha bevuto Iddio, ci posso bere anch’io”. Quindi con il viso ancora tutto bagnato si diceva “chi l’acqua del Solano beve o folle o poeta diviene”. E si rideva, si rideva sempre tanto. Tu non hai mai scritto una poesia, credo, neppure un rigo, ma poeta eri davvero, ad ogni passo della tua vita; la tua parola, breve e scandita come grandinina, era Poesia. Tu mi hai insegnato la poesia della tua terra, il senso, il respiro, l’anima.
Certo non sei stato tutto il Casentino, ma il Casentino è te, Beppe. E non eri solo la valle e il paese dove nascesti: da lì partivi col tuo piccolo camion rosso pieno di mercanzie diverse, dagli agnelli alle terrecotte, a seconda delle stagioni e dei diversi tempi e, abilissimo nella guida, andavi in giro per tutta l’Italia, isole comprese. Per quanto eri attento e capace, proprio a te, Beppe Luzzi, vennero poi affidati il trasporto e la cura di una colonna tortile di marmo, destinata alla sostituzione di un’altra usurata nella facciata di Santa Maria in Fiore, dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze a Strada in Casentino per una delle edizioni della Mostra della Pietra Lavorata.
Quando ti conobbi, più di quarant’anni fa, questo facevi di mestiere, camionista in autonomia, adattando i diversi trasporti ai bisogni del momento, caricando, scaricando, guidando con attenzione e con destrezza come ogni diverso carico richiedeva. E durante i tuoi viaggi non mancavi mai di cedere all’innata curiosità per situazioni, persone e cose, di favorire incontri, di metterti in relazione con gli altri. Ricordare per poi raccontare. A me pareva che tu conoscessi tutte le strade d’Italia, le osterie dove si mangiava bene e anche le cose più importanti da vedere: eri un’affidabile guida per programmare viaggi alternativi. Vittorio Vettori, scrittore e a lungo presidente della prestigiosa Accademia Casentinese, di te diceva “Beppe Luzzi è un uomo colto che ha fatto l’università della strada”.
Di quel tempo, oltre ai tuoi racconti di viaggi sempre coloriti e arguti, ricordo il tuo berretto grigioverde perennemente ornato di una piccola baldanzosa penna azzurra di ghiandaia. Un giorno andammo alla Rocca Ricciarda, nel versante valdarnese del Pratomagno. Sottovoce mi confessasti che non c’eri più tornato da “allora”. Quella volta non si rideva perché per “allora” tu intendevi riferirti al tempo in cui eri, diciannovenne appena, al campo coi partigiani sul piano proprio sopra la Rocca. E mi parlasti della fame e del freddo patiti in quell’inverno, e di quando, tornado con un gruppetto di compagni sul versante casentinese della montagna, trovasti presso una casa isolata un forno ancora tiepido per la cottura del pane sfornato da poco. Intirizzito più che affamato non chiedesti nient’altro alla massaia che… di poterti infornare tu.
“Lì dentro – mi dicesti – mi sentii lievitare come il pane, circolare di nuovo il sangue nelle vene. Ahhh!” e accompagnavi il racconto coi gesti e con la mimica del volto, come sempre facevi rafforzando ogni storia con espressività da attore navigato. Un’altra volta mi portasti all’Omo di Sasso, sul crinale del Pratomagno. È questo una “muriccia”, un cumolo di sassi, come alcuni ce ne sono soprattutto nel lato occidentale del Casentino, portati via via, fin da tempi lontani, e messi dai passanti l’uno sull’altro per devoto ricordo di un fatto, il più delle volte tragico, avvenuto proprio nel luogo (come nel caso della muriccia dell’Ommorto presso la Consuma che sorge sul posto ove fu arso vivo Mastro Adamo). E noi quel giorno, con devozione, risistemammo le pietre dell’Omo di Sasso che il tempo e le intemperie avevano fatto collassare dal tumulo.
Anche in quell’occasione facevi quel che facevi con perizia, precisione e serietà, come se quella fosse l’unica cosa veramente importante da fare al mondo. Per quanto eri attento e capace, proprio a te vennero affidati il trasporto e la cura di una colonna tortile di marmo, destinata alla sostituzione di un’altra usurata nella facciata di Santa Maria in Fiore, dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze a Strada in Casentino per una delle edizioni della Mostra della Pietra Lavorata. Del resto era così per ogni cosa che ti mettevi a fare: dalla pesca alla trota in solitaria alla ricerca dei funghi insieme agli altri, dalla “confezione” della polenta di castagne…al mettersi sulle tracce dei resti di un velivolo caduto in un bosco del Pratomagno tanti anni prima.
Ogni cosa a quel tempo con te, e spesso con gli amici di Garliano, sapeva di rito, di leggenda e di magia, anche perché c’eri sempre tu che raccontavi, raccontavi… Tutte le conoscevi le storie del Pratomagno e alcune, durante le sere di veglie, ho potuto raccogliere e scrivere, per ricordare. Qualcuno parlando di te, al tuo funerale il 12 marzo 2024 a Strada in Casentino, ha detto che sei “uomo della pacificazione” perché, al di là delle fazioni, oltre le idee personali, benché fermo nelle tue convinzioni, rimani esempio di uomo libero dall’umanità profonda. Eri capace infatti di portare la tua parola a tutti, benché talvolta rafforzata da qualche espressione colorita e irriverente, e l’amicizia a coloro che potevi stimare, perché sapevi che al di là di tutto e prima di tutto viene l’uomo: acuto com’eri non ti sfuggiva, già dalla prima occhiata, il valore di una persona, anche se di opinioni diverse dalle tue.
Sembrò incredibile, quel giorno, era di martedì, tornare dal tuo funerale e dire “ma che bella giornata”, e non perché c’era il sole. È che è stato un saluto sereno, non dico gioioso, certo! Ma bello, naturale. Cerimonia religiosa e cerimonia civile alla presenza di tanti nella pieve di San Martino in Vado: Santa Messa, predica breve e composta del parroco, ricordo commosso della cara nipote Claudia, saluto del sindaco di Castel San Niccolò, in veste ufficiale con tanto di fascia tricolore. Quando fummo fuori dalla chiesa, con la tua cara moglie Settimia, i figli Lia e Giulio, i nipoti, i parenti, i tanti amici convenuti, tutti insieme ci siamo messi a cantare “Bella ciao” accompagnati dalla fisarmonica nel piazzale adornato, come a festa, da stendardi e la giusta quantità di fiori.
Tutto giusto, in una pace giusta per il saluto all’uomo giusto e pacificatore. Ci siamo sentiti con te Beppe fino quasi a dimenticarci, faccio per dire, della tua bara che ti portava via, leggero così come hai vissuto.