di Lara Vannini – Giugno incorona l’estate e apre le porte alla rinascita della Natura ma anche dell’essere umano e delle attività all’aria aperta. Giugno è il mese che prende il nome da Giunone, moglie di Giove e dea della fecondità e dell’abbondanza. Come sempre ogni definizione del passato ci rimanda ai cicli naturali, a come l’uomo interpretava la realtà in cui viveva, i suoi timori, le sue aspettative, la relazione viscerale e simbiotica con il susseguirsi delle stagioni e i lavori manuali che caratterizzavano ogni mese del calendario contadino. Dalla Primavera in poi (tempo permettendo!), le campagne letteralmente esplodevano di colori e di profumi, e i raggi solari che fino ad allora con ogni probabilità erano stati deboli e inframmezzati da pioggia, nuvole, e qualche tardiva nevicata, ora erano pronti a far germogliare e portare a maturazione i prodotti dei campi. Il clima mite della bella stagione, che nella contemporaneità è sinonimo di scampagnate all’aria aperta e gite fuori porta, era per i nostri avi contadini un allarme naturale che indicava l’inizio del lavoro nei campi e della mietitura. Donne e uomini erano pronti a distribuirsi i compiti e ad affrontare le lunghissime giornate di lavoro all’aria aperta, dove le mansioni e il susseguirsi delle ore erano scandite da precisi rituali.
In cammino verso la messe Ci sono molti dipinti famosi che ci mostrano un popolo di contadini chini sui campi e indaffarati con la mietitura del grano. Da Bruegel a Van Gogh, ciò che balza agli occhi dalle interpretazioni pittoriche, è la vastità del paesaggio, dominato dal biondeggiare del grano, le donne chine a terra a raccattare le spighe, le poche aree ombrose sotto la fronda di qualche albero che custodivano il geloso riposo del lavoratore, dopo tante ore di travaglio sotto il sole. Anche le riproduzioni degli abiti tipici del periodo ci raccontano ulteriormente della fatica che veniva spesa a stare ore ed ore sotto il sole cocente, tutto il corpo coperto con abiti, “pezzole” sulla testa e pannucce, i tipici grembiuli lunghi e capienti delle massaie. Durante la stagione della mietitura che durava indicativamente da giugno ai primi di agosto (quando avveniva la trebbiatura), uomini, donne e ragazzi abili a dare una mano, partivano verso gli appezzamenti terrieri, pronti ad affrontare il duro lavoro.
Dall’alba al tramonto La giornata lavorativa iniziava prestissimo, alle prime luci dell’alba, un po’ per sfruttare tutta la giornata e un po’ per evitare di essere molto stanchi nelle ore più calde. Se i campi non erano estremamente vicini alle abitazioni, potevano essere usati dei muli per il trasporto degli attrezzi. Le donne oltre a lavorare attivamente, erano preposte alla realizzazione del pranzo. La colazione fatta a casa doveva essere il più possibile sostanziosa per dare molta energia. Pane e prosciutto o formaggio, qualche avanzo della sera precedente, uova di gallina, e difficilmente venivano consumati dei dolci come facciamo oggi. Il pranzo a base di pastasciutta e verdure, poteva essere al sacco o consumato sull’aia di qualche casa colonica se fosse stata vicina al luogo di lavoro e infine gli spuntini erano a base di pane e pomodoro o affettati. I prodotti per l’alimentazione erano freschi e generalmente a “km 0” più per necessità che per altro. La giornata riprendeva dopo pranzo senza sosta, per poi far rientro a casa nel pomeriggio inoltrato. Fin dai tempi remotissimi, il grano era mietuto a mano, con la tipica “falce a mezzaluna”, che ancora oggi è l’attrezzo simbolo del contadino e in generale del duro lavoro manuale. Il grano falciato veniva battuto con dei bastoni per far uscire il chicco dalla spiga, un lavoro estremamente estenuante. Tutto questo è stato poi soppiantato dal mietitrebbia e dalla meccanizzazione.
Falce fienaia e Falce messoria La Falce si divideva in due tipologie: quella “fienaia” e quella “messoria”. La Falce fienaia, era un attrezzo che veniva utilizzato a due mani, ed aveva due impugnature, una a metà altezza, e l’altra all’estremità opposta delle lame. La Falce messoria o “falcetto”, era un attrezzo che veniva maneggiato ad una sola mano ed utilizzato specificatamente per recidere i cereali. Essendo strumenti con lame molto affilate e taglienti, era estremamente necessario saperle utilizzare perché le ferite che potevano arrecare erano estremamente profonde e difficili da curare, specialmente abitando in contesti rurali remoti e lontano dai centri abitati. Le falci e in generale tutti gli strumenti da lavoro venivano conservati gelosamente in aree apposite, come le stalle o le cantine, tramandati da padre in figlio e oggetto di accurata manutenzione. Infatti esistevano persone con specifiche competenze che erano incaricate di curare gli attrezzi e affilare le lame. Come abbiamo detto la falce simbolo della mietitura era la “falce messoria” dal latino “messorius” ovvero messe, l’operazione che serviva per mietere il grano. Le donne, oltre a pensare al pranzo ed aiutare in maniera generica la famiglia nei campi, erano spesso preposte a “spigolare” ovvero raccattare le spighe cadute nel corso della mietitura. L’incombenza della Spigolatrice, era senza ombra di dubbio, uno dei lavori più duri e allo stesso tempo rappresentava uno dei contesti più poveri del mondo contadino. Un lavoro estenuante e ripetitivo che comportava il chinarsi e rialzarsi innumerevoli volte.
Lanterne magiche Quando calavano le tenebre soprattutto vicino alle aree boschive, tutto acquisiva un sapore fiabesco e la notte veniva rischiarata dalla magica luce delle lucciole. La scienza oggi ci informa che esistono ben 21 specie di lucciole e che la loro luminosità deriva da una reazione chimica che avviene all’interno dell’addome di questo insetto. Oggi la loro esistenza viene messa a dura prova dall’inquinamento luminoso e atmosferico, ma più di un secolo fa questo spettacolo naturale faceva da coronamento ad una dura giornata di lavoro quando, lasciati gli attrezzi del mestiere, la quiete, il canto dei grilli e il chiarore delle lucciole custodivano i sogni e le attese di chi nella Natura riponeva tutte le proprie speranze.