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mercoledì, 24 Aprile 2024

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Le erbe medicinali di Don Giuseppe

di Terenzio Biondi -Sono già passati alcuni anni, ma me la ricordo benissimo quella domenica all’inizio dell’estate. Un sole splendente e un caldo delizioso. Nonostante il mal di gola che mi affliggeva da alcuni giorni (in barba alle manciate di antibiotici che avevo ingoiato) non potevo perdermi una giornata di pesca così bella. Scelsi un fosso facile facile, il Fosso delle Ginghe all’altezza di Biforco. Ma dopo un’oretta scarsa di pesca (con nel cestino solo un paio di trotelle appena a misura) mi vidi costretto a tornare alla macchina: il mal di gola non mi dava pace, anzi ora la voce se ne era andata quasi del tutto.

Presi così il sentiero che dal fosso porta a La Lama attraversando prima campi abbandonati e poi selve di castagni secolari. A pochi metri dal torrente, in mezzo all’erba alta di un prato, vestito di nero… ma sì… quella è una tonaca nera… sì sì…  non può essere che lui… il vecchio parroco di Biforco, Don Giuseppe. Ma che sta facendo?

Mi avvicino incuriosito e lo saluto. Sta raccogliendo erbe, erbe e fiori, che poi ordinatamente dispone in un grosso paniere. Riconosco l’ortica, la malva, la salvia… insieme ad altre erbe e fiori che non conosco. Mi sorride.

“Questo è assenzio – mi dice – e questo è timo”. E mi invita ad annusarli entrambi, ad occhi chiusi, per riconoscere il loro caratteristico profumo.

“Ma la gola come va?” mi domanda sentendo la mia voce rauca.

“Non bene – rispondo – anzi… piuttosto male”.

Sorride di nuovo, si fruga in tasca (una enorme tasca nella tonaca nera) e ne tira fuori una scatoletta di metallo. La apre. È piena di piccoli frammenti di erba e fiori essiccati.

“È assenzio – mi dice – mettilo in bocca e masticalo lentamente. Vedrai… Anzi, tieni tutta la scatoletta. Quattro volte al giorno, mi raccomando. È ottimo contro la febbre e il mal di gola”. Lo ringraziai. Non ci crederete: il giorno dopo stavo già bene; altre ventiquattr’ore e il mal di gola era solo un ricordo.

La domenica dopo tornai a pesca nel Fosso delle Ginghe e al ritorno mi fermai a Biforco. La Messa era finita da poco. Vedo aperta la porta della canonica. Busso ed entro.

Don Giuseppe mi accolse col suo abituale sorriso. Stava leggendo un antico manuale di erbe medicinali e – visto il mio interesse per l’argomento – si mise ad illustrarmi le proprietà terapeutiche delle varie erbe, le modalità di raccolta e di conservazione, di come alcune vadano bollite ed altre essiccate, tutto secondo le secolari tradizioni dei frati della Verna e dei monaci di Camaldoli. Mi mostrò anche con orgoglio un quadro con una vecchia foto di Frate Achille, che lui stesso aveva conosciuto negli anni immediatamente precedenti l’ultima guerra, in tempi in cui non esistevano farmaci per curare tante malattie. E commosso si mise a raccontarmi di come l’umile fraticello, con le erbe raccolte nei prati ai piedi del Sacro Monte della Verna e nei prati della Vallesanta, e soprattutto negli orti che i frati lavoravano lungo l’antica via che da Chiusi porta alla Beccia e poi alla Verna, riusciva a curare tante malattie: malattie infettive e febbre con l’assenzio, scompensi cardiaci con la digitale, coliche addominali con la belladonna, i reumatismi col timo… e di come al fraticello ricorressero tantissime persone e gli stessi medici da tutto il Casentino.

“A Chiusi – mi disse sorridendo – c’è ancora qualche vecchietto che si ricorda di Frate Achille, quel fraticello che vedevano spesso intento a zappare negli orti dei frati, ad annaffiare, a raccogliere tanti tipi di erbe, a seccarle…”.

E oggi anche lui, Don Giuseppe, erede del sapere e delle tradizioni degli antichi frati della Verna, qualcosa – mi disse con fare modesto – riusciva a fare. Tra l’altro a novant’anni suonati, grazie alle erbe medicinali della Vallesanta, non sapeva cosa fosse l’influenza o la febbre o il mal di gola o i reumatismi…

Mi vide un po’ claudicante (da qualche tempo una tendinite al ginocchio mi dava un certo fastidio). Sorrise di nuovo e con fare rassicurante tirò fuori da una tasca della tonaca una bottiglietta.

“È l’olio delle diciotto erbe – mi disse – Massaggia la zona dolente, mattina e sera, e vedrai”. Non ci crederete: dopo qualche giorno il ginocchio era a posto.

La scatoletta di metallo e la bottiglietta di vetro sono adesso vuote, ma non le ho gettate. Le conservo in un cassetto della scrivania, dove sono solito raccogliere i ricordi più belli e preziosi; e questi sono veramente belli e preziosi, ricordi di un’amicizia vera nata presso la riva di un torrente, in Vallesanta, una domenica all’inizio dell’estate.

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