fbpx
21.4 C
Casentino
venerdì, 29 Marzo 2024

I più letti

Una magica novella casentinese da leggere al “canto del foco”

di Giorgio Innocenti Ghiaccini – Al Sassopiano, in cima al borgo che ospitava la badia di Prataglia, abitava la famiglia di Daddeo. In quella casa, in una sera illuminata da una luna piena che sembrava quasi giorno, si senti bussare alla porta. Erano tre amici che, anche senza avvertire, erano venuti a veglia come si usava fare d’inverno. I tre ansimavano un pochino perché avevano fatto la salita che li aveva portati fino a lì. Infatti avevano faticato più del solito perché la terra ghiacciata, che fino a qualche ora prima aveva una pellicola di fanghiglia, criccava all’appoggio pesante dei piedi e invitava alla cautela per il pericolo di improvvise scivolate.
Daddeo li fece entrare e chiuse subito la porta dalla quale si sentiva arrivare un freddo cane. Due grossi ceppi di cerro fiammeggiavano nel grande focolare e illuminavano di arancione tutta la cucinona dalle pareti annerite dal fumo; fumo, che spesso, il vento proveniente dal Punton di Canino respingeva indietro dalla canna fumaria.
Dopo i primi scambi di saluti, Daddeo invitò i tre amici: Brunetto, Tinello e Cacciaguerra a sedere attorno canto del fuoco sulle panche che entravano fin sotto la grande cappa del camino. Chi non ha provato a sedersi in quel posto privilegiato, dove la panca ha le gambe più corte perché appoggiate sul piano sopraelevato del focolare dove normalmente sedevano i nonni e i capoccia, non può apprezzare anche l’inverno.
Le fiamme, anche solo con i movimenti delle braccia, proiettavano enormi ombre sulle pareti disegnando strane figure mobili e tremolanti. Unica quella immobile, ma vibrante ed enorme, era quella del fiasco di vino appoggiato nel centro tavola.
Dopo i soliti convenevoli e battute tra amici, come sempre avviene nelle serate in compagnia, dopo che la notte ha conquistato il mondo e le tenebre avvolgono tutto quello che di giorno si vede e lo nasconde alla vista degli uomini, si cominciò a parlare di quello che si discute normalmente a veglia in Casentino. Il fuoco, che scalda il viso, ma fredda la schiena, qualche bicchiere di troppo e la combriccola, danno coraggio di parlare delle cose più spaventose che, quando si è soli, si cerca di cacciare dai pensieri. Se ne parla, se ne ride, fino a che dura la serata. Poi però, quando si è, senza la brigata, sulla via del ritorno verso casa a notte inoltrata, dopo una serata così interessante, quello che si è sentito raccontare torna prepotentemente alla mente e fa accapponare la pelle e frizzare le tempie.
I monti di Badia Prataglia, con le loro foreste millenarie, che i frati del posto prima e quelli della vicina Camaldoli poi, hanno fatto giungere bellissime e spaventose fino a noi, per tradizione ci tramandano episodi dove l’arcano la fa da padrone e dove sono ricordati incontri di figure strane e fantasiose. La presenza di cervi e caprioli, cinghiali e lupi è poca cosa rispetto a quella delle streghe, ma anche delle fate, di diavoli e di altre creature malvagie e buone.
La differenza esistente tra la fauna e questi esseri, ritenuti innaturali, sta nel fatto che, mentre gli animali ogni tanto possono essere incontrati, queste altre figure non si riesce quasi mai ad incrociarle e si conoscono solo per sentito dire da altri che dicono di averle viste. Però, che ci siano, è fuori di dubbio perché tutti ne confermano l’esistenza, in particolare lo sanno i carbonai e i boscaioli. Quello che si diceva in quella sera entrava proprio nel cuore del mistero e nell’occulto.
Cacciaguerra, che il nome indicava come quello più coraggioso, in realtà era colui che si sapeva esser il più pavido e di avere paura più degli altri a muoversi solo di notte. Tinello, al contrario di lui, raccontava sempre storie paurose senza avere il minimo timore e vantandosi del suo coraggio.
Quella sera cominciò col raccontare un fatto che colpì tutti e iniziò col dire:
«A casa di Bencivenne, presso l’Isola, stavano succedendo delle cose incredibili. Quando, dopo il tramonto del sole, tutti erano a tavola a mangiare, e lo facevano alla fioca luce di un lume a petrolio, dalla cantina sottostante la cucina, venivano degli insoliti rumori. Si udivano dei colpi, come se cadesse qualcosa o se qualcuno bussasse, strano ma vero, da sotto il pavimento in su. Bencivenne, non da solo, ma in compagnia e con una lanterna in mano, era sceso tutto tremante, più volte, a vedere se ci fosse qualcuno ed eventualmente capire chi potesse essere».
Il discorso si faceva interessante, ma pauroso, e Cacciaguerra si era rannicchiato sulla panca quasi tentando di nascondersi e di esorcizzare così gli effetti del racconto. Il timore e la paura di quello che avrebbe continuato a dire Tinello lo aveva fatto ripiegare tutto su sé stesso, avrebbe voluto essere in casa sua, protetto dalla porta chiusa dall’interno con il contrafforte e con le carline attaccate all’esterno.
Si sa che le carline, sorta di cardi selvatici che si trovano nei prati delle nostre montagne, sollecitavano la curiosità e l’obbligo alle streghe che, prima di superare una porta dove fossero inchiodate, avrebbero dovuto contare tutti i pelucchi della barbetta che si forma al centro del fiore. Siccome questi pelucchi sono molto fini e tantissimi, è molto probabile che la strega ad un certo punto perdesse il conto e quindi sarebbe stata obbligata a ricominciare da capo, di fatto rendendole impossibile l’accesso.
Daddeo pareva indifferente e quasi annoiato del racconto che ascoltava senza nessuna emozione, mentre Brunetto ascoltava a bocca aperta. Tinello prosegui:
«Bencivenne, sceso più volte in cantina con la moglie, dopo aver sentito che sicuramente qualcuno doveva esserci, non vi aveva mai trovato anima viva. Infatti appena lui apriva la porta i rumori cessavano e anche i figli, che erano rimasti in cucina, dichiaravano la stessa cosa. La porta della cantina era chiusa con un pesante catorcio fissato con un lucchetto e la chiave la teneva al collo proprio Bencivenne stesso. Per questo se qualcuno fosse entrato avrebbe dovuto passare attraverso i muri. Quindi il responsabile di questi colpi avrebbe dovuto essere per forza una creatura soprannaturale, magari uno spirito malvagio passato attraverso la porta chiusa.
Era un bel mistero! Si, era un mistero che doveva essere risolto.
Bencivenne la notte non dormiva più al pensiero di stare sotto lo stesso tetto dove erano presenti anche figure sconosciute che non si sapeva se fossero buone o malvagie. Era certo che disturbavano, quindi non potevano certamente dirsi ben accette, ma certamente cattive, altrimenti, magari, si sarebbero anche fatte vedere».
Poi Tinello prosegui:
«Una sera andai a veglia in quella casa e Bencivenne mi raccontò la storia e conoscendo il mio indubbio coraggio, mi chiese di aiutarlo. Partì col discorso da molto lontano, poi mi domandò se avevo un’idea di chi potesse essere a fare quei rumori la notte. Era chiaro che presenze estranee dovevano operare in quella cantina dopo il tramonto del sole. Lo scorrere stridente del catorcio dentro i suoi occhielli era sufficiente a far piombare tutto nel silenzio».
Cacciaguerra avrebbe voluto dire all’amico di farla finita e di non raccontare più niente, ma se non aveva il coraggio di ascoltare, non aveva nemmeno l’audacia di dirgli di smetterla; aveva anche paura di essere preso in giro. Brunetto invece stava ascoltando con interesse e anche Daddeo, che era in casa sua e quindi non doveva affrontare il viaggio di notte per andare a letto, cominciava a seguire il racconto incuriosito.
Meno male che Cacciaguerra, finita la veglia, avrebbe fatto la stessa strada dei due amici, Tinello e Brunetto, che sarebbero passati prima da dove abitava lui, altrimenti avrebbe chiesto a Daddeo di farlo dormire a casa sua. Dopo una breve pausa, per dare più importanza alla cosa, e un sorso di vino, Tinello continuò a parlare:
«Come qualcuno ha già detto, il coraggio chi ce l’ha, ce l’ha e chi non ce l’ha, non se lo può dare e nemmeno comprarlo. Io fortunatamente ne avrei da vendere e per questo mi misi a disposizione di Bencivenne. Ero curioso di risolvere l’enigma; inoltre, poiché non è bello abbandonare un amico quando ha necessità di essere aiutato, mi resi disponibile. Una sera andai a casa sua all’ora di cena, quella era l’ora dei rumori, e ci mettemmo a parlare del più e del meno.
Dopo un po’ di tempo, si cominciarono a sentire colpi sotto il pavimento. “Tu, tutu, tu, tu, tutu, tu …” i rumori erano chiarissimi, come se ci fosse qualcuno a testa in giù a camminare nel soffitto di cantina con gli zoccoli di legno. Non c’erano dubbi, qualcuno era di sotto».
«Vado a vedere, Bencivenne dammi la chiave!» disse Tinello.
Poi continuò:
«Presa la chiave, corsi velocemente verso la cantina con un grosso lume per vedere se riuscivo a trovarci qualcuno. Entrai. Tutto era fermo … immobile. La creatura o le creature, che avevano provocato quei rumori, erano scomparse.
La cantina era ripiombata nel silenzio più total».
«Dai, continua» disse Brunetto più curioso che mai, mentre Cacciaguerra era diventato piccolo, piccolo rannicchiato nel suo canto.
Allora Tinello, gonfiando il petto e schiarendosi la voce da uomo valente qual’era, riprese:
«Non potevo far altro che ritornare da Bencivenne un’altra volta, in un’altra sera, e farmi chiudere in cantina prima del tramonto e aspettare per vedere il fantasma, il diavolo, la strega o chiunque fosse, mentre operava, vai a capire te, chissà quale sortilegio».
«E tu avesti il coraggio di farti chiudere in cantina sapendo che avresti avuto vicino qualcuna di quelle creature malvagie? Ma davvero non avevi paura?».
ribatté stupito Brunetto.
«Dico, ma scherziamo? Paura io? Ma fammi il piacere … »
riprese Tinello:
«Così feci un paio di sere dopo. Entrai in quella cantina, accesi il lume, lo appoggiai sopra una botte affinché rischiarasse tutto quell’ambiente con le pareti nere, … mai state pulite e neanche mai imbiancate, ma riccamente addobbate da ragnatele ciondolanti per il peso della polvere. Mi acquattai in un angolo e attesi».
A questo punto Tinello volutamente si fermò quasi per voler sollecitare la curiosità degli astanti e per provocare in loro uno stato d’ansia e di curiosità al punto che, impazienti, dissero.
«Continua … continua!»
«Era passata poco più di un’ora» disse: «e sentii dei colpetti nel soffitto. Non c’era nessuno, ma qualcuno sicuramente doveva aver provocato quei colpi. Alzai gli occhi e vidi che nello spazio tra le travi e il soffitto c’erano infilate “a bilancia” le zappe e le vanghe occorrenti per il lavoro nei campi. Bencivenne le aveva messe li per mantenerle il buono stato per la primavera successiva.
Quell’ambiente era l’ideale per quegli attrezzi, perché, se in cantina, ci si conservava bene il vino, sicuramente era il posto giusto anche per loro.
Le zappe, poste a bilancia, ancora ondeggiavano, proprio come i piatti di una stadera. Osservando con più attenzione, vidi due occhietti che riflessero la luce fioca del grosso lume, come quelli delle volpi di notte. Erano gli occhi di un grosso topo, che saltando da un’estremità della zappa a quella di una vanga, faceva battere sul soffitto soprastante la parte opposta provocando il colpo. L’arcano fu scoperto grazie al mio coraggio!».
La paura e la tensione, che in Cacciaguerra erano aumentate man mano che il racconto si srotolava, di colpo sembrò svanire quando sulla sua bocca comparve un risolino di autocommiserazione. Allora pensò:
«Che stupido sono stato! Come Bencivenne mi sono stato fatto terrorizzare da qualcosa che aveva una spiegazione logica, non c’era bisogno di scomodare le potenze dell’occulto».
Però è un dato di fatto, che per noi comuni mortali, quando un evento non ha una spiegazione logica, è normale il ricorso al tentativo di giustificarlo nell’unico modo possibile: il maleficio, il miracolo o comunque il soprannaturale. Per questo, troppo spesso si fa intervenire il demoniaco, ma anche il divino, per farsene una ragione e giustificare le nostre emozioni.
La chiacchierata tra i quattro continuò tutta la sera. Anche Daddeo volle raccontare un fatto strano; qualcosa di cui aveva avuto un’esperienza quasi diretta, poiché il fatto era capitato alla cavalla del suo suocero Vespuccio e cominciò col dire:
«Era un po’ di tempo che la cavalla di mio suocero sembrava non star bene, preferendo star dentro la capanna anziché correre nel recinto che ha a sua disposizione. Il fieno che le veniva dato era il migliore che ci fosse, ma lo rifiutava mangiando solo un pochino di biada, era quasi schizzinosa. Mio suocero aveva notato nella criniera e nella coda delle strane trecce, simili a quelle che le donne si fanno nei capelli. Come poteva essere che la cavalla avesse le trecce sui crini? Con gli zoccoli non poteva farseli. Tutto era strano, come inspiegabile era il rifiuto del fieno che la cavallina aveva sempre mangiato con grande appetito».
Si schiarì la voce, bevve un goccio di vino e continuò:
«Un giorno passò da casa mia un frate da cerca con il suo somaro a fare la questua; aveva sulla soma una botticella vuota e due balle in cui ancora non aveva messo nulla ed erano più sgonfie del mantice di un organo che ha smesso di suonare. Gli detti un po’ di grano e due coppie d’uova, poi gli chiesi se lui, uomo di chiesa, sapesse dare una spiegazione al comportamento di quell’animale e alla presenza di quelle trecce. Mi rispose che doveva esserci lo zampino di qualcuno, perché quella cavalla doveva essere stregata. Perché una strega lo avesse fatto era difficile a dirsi. O era una ritorsione nei confronti di mio suocero Vespuccio o era semplicemente un sistema per trovarsi lavoro. Infatti alcune streghe possono stregarti per poi guarirti e anche se non possono chiedere nessun compenso, non c’è nessun cristiano che neghi loro un’offerta. Mi disse, che se volevo risolvere il problema, di provare ad andare dalle fate. Tutti sappiamo che queste figure abitano in quella grotta che si trova, proprio qui a poca distanza sopra casa mia dentro la foresta. Le fate, figure evanescenti, quasi trasparenti e vestite abiti di colori tenui, dalla voce deliziosa, sono molto buone e secondo il frate mi avrebbero dato la giusta dritta per risolvere il mio caso. In genere intervengono con i loro poteri magici, sempre esercitati a buoni fini, a favore dei perseguitati dai malvagi. Naturalmente chi si rivolge a loro deve essere con l’anima candida, quindi confessato da poco, e con lo spirito sincero, perché altrimenti non si farebbero nemmeno vedere; forse è per questo, visto che siamo tutti peccatori, che non si vedono quasi mai. Comunque io mi presentai a loro come il frate mi aveva indicato e una, vestita del colore della rosa canina, rosa pallidissimo, con le labbra rosse come le bacche di quel fiore, si staccò dal gruppo delle altre e mi disse che sapeva già quello che io volevo. Mi parlò con una voce suadente che sembrava una delle sirene di Ulisse. Da me volle sapere se ero andato fino alla loro grotta con l’animo sincero, se mi ero liberato dei peccati e con il cuore puro. Io naturalmente le dissi di si. Poi mi spiegò, sempre parlando dolcemente e quasi sottovoce, che il loro impegno lo avrebbero profuso, più per guarire la cavallina, che per fare un favore a me. Mi pregò di aspettare lì dove mi trovavo ed entrò nella grotta seguita da tutte le altre, come in processione. Dopo una mezz’oretta tutte uscirono di nuovo e quella col vestito rosa mi si avvicinò e mi disse di tornare a casa perché tutto era risolto. Avrei potuto tranquillamente verificare subito appena giunto a casa di Vespuccio. Mi raccomandò di mettere una carlina inchiodata alla porta della capanna. Mi inchinai ringraziandola e benedicendola, poi venni via».
«È vero« disse Brunetto:
«Lo confermo, poi vi racconterò anch’io un fatto che è accaduto a me».
Daddeo continuò dicendo che appena arrivato a Badia andò a vedere la cavalla del suocero. La trovò che mangiava come un lupo. La criniera e la coda erano lisce che sembravano pettinate e batteva i piedi come una giovane puledra che aveva tanta voglia di correre contro il vento.
Allora anche Brunetto volle fare il suo racconto:
«A me é capitato con i maiali. Si, un giorno ero nella vigna e mi chiamò mia moglie. La mia donna mi disse che aveva notato qualcosa di strano nello stalletto della scrofa. La troia strideva con le mammelle gonfie e i maialini non prendevano il latte … sembravano intontiti. Vezzoso, il mio vicino, mi spiegò quello che stava accadendo e mi disse che nella faccenda c’era sicuramente lo zampino di una fattucchiera. I maialini erano stregati e bisognava fare alla svelta perché altrimenti sarebbero morti tutti di fame». (…)

FINE PRIMA PUNTATA

Ultimi articoli