di Caterina Zaru – Quando pensiamo all’archeologia e ai musei, siamo portati a immaginare tesori, statue, monete d’oro, vasi preziosi. Eppure, la gran parte delle informazioni che gli archeologi ricavano dal terreno non proviene dagli oggetti straordinari, ma da ciò che la società del passato ha abbandonato: frammenti rotti, cocci di vasellame, resti di pasti, ossa di animali, gusci, carbone, residui di lavorazione artigianale. In altre parole, da ciò che noi chiameremmo semplicemente rifiuti.
Negli ultimi decenni si è sviluppato un vero e proprio filone di studi definito “archeologia dei rifiuti”. In Francia, con i lavori promossi dall’INRAP e da numerosi ricercatori, si parla di una vera e propria “archéologie des déchets”, che considera gli scarti non come materiali senza valore, ma come tracce culturali dense di significato. Parallelamente, nel mondo anglosassone si è affermata la “garbology”, avviata dagli studi di William Rathje negli Stati Uniti, che ha analizzato scientificamente le discariche moderne e antiche. Questi approcci, pur diversi, hanno in comune l’idea che i rifiuti siano archivi inconsapevoli, capaci di restituire un’immagine fedele della vita quotidiana.
Una discarica, una latrina, una fossa di scarico non sono semplici vuoti, ma strutture che raccontano pratiche sociali e tecniche produttive. Strati sovrapposti di ceramiche, vetri, ossa e materiali artigianali restituiscono scene di vita, abitudini alimentari, economie locali. Ossa e corna di animali, ritrovate in contesti urbani o rurali, parlano di attività artigianali oggi invisibili. Gli scarti, dunque, diventano indizi preziosi per comprendere non solo le élite e i grandi monumenti, ma anche la vita quotidiana di comunità intere.
La lezione che emerge è chiara: il rifiuto non è un elemento marginale, ma parte integrante del paesaggio archeologico. Ci aiuta a ridurre la distanza con il passato, perché ciò che accomuna noi agli antichi non sono i tesori eccezionali, ma i gesti comuni: cucinare, mangiare, gettare via ciò che non serve più. Studiare i rifiuti del passato significa anche riflettere sul nostro presente. Come abbiamo visto nell’articolo precedente, le società antiche erano spesso più attente al riuso e al riciclo di quanto non lo siamo noi oggi: i materiali e gli oggetti venivano riparati, trasformati, riutilizzati. Un insegnamento che possiamo raccogliere in tempi in cui la gestione sostenibile delle risorse è diventata una sfida globale.
L’archeologia dei rifiuti ci invita quindi a guardare con occhi nuovi ciò che normalmente scarteremmo. Ogni frammento ha una storia da raccontare e ogni scarto conserva un gesto che ci parla di chi lo ha compiuto. In questi resti umili ritroviamo non solo il filo che ci lega al passato, ma anche una guida preziosa per visitare i nostri musei archeologici con maggiore consapevolezza.
Caterina Zaru, Direttrice del Museo Archeologico del Casentino “Piero Albertoni”



