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lunedì, 12 Maggio 2025

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La ricerca della felicità

di Martina Belli – Da dove vengono i ragazzi di colore arrivati all’inizio di maggio a Soci? Che cosa fanno tutto il giorno? Chi paga per il loro cibo, per i loro vestiti? Siamo noi? Dobbiamo davvero accogliere queste persone che sembrano così diverse da noi? Mi salutano per strada, ma io non li conosco.”

Tante domande affollano la mente degli abitanti di Soci che una mattina di inizio maggio si sono svegliati e hanno trovato il loro paese più numeroso di 7 individui. Ragazzi alti, poco più che ventenni, che girano insieme quasi senza meta. Ma soprattutto di colore e incapaci di pronunciare anche una sola parola in italiano, tranne ciao.

E il paese mormora. E il paese presuppone. E il paese commenta. Ma chi sono davvero questi ragazzi? Sono sette, cinque di loro vengono dal Ghana, due dal Gambia ed hanno tra i 18 e i 25 anni, uno ne ha 30. Uno di loro è sordomuto e gli altri sei comunicano con lui in inglese, scandendo bene le parole con le labbra. Sorridono, sono timidi, ma insieme all’aiuto della dottoressa Melina Chiara Paluani, che conosceremo dopo e che si occupa di loro da quando sono arrivati in Toscana, siamo riusciti ad avere una conversazione che li ha visti aprirsi pian piano, raccontare gesticolando di territori lontani, di esperienze che sembrano d’altri tempi, di eventi che noi vediamo solo in televisione.

Le storie di questi ragazzi sono diverse tra di loro, ma allo stesso tempo si assomigliano un po’ tutte. Per vari motivi, del tutto personali, ognuno di loro ha dovuto lasciare il paese di appartenenza, dove fino a quel momento avevano fatto tutto ciò che ogni ragazzo della loro età avrebbe fatto: lavorato (difatti tra di loro c’è un insegnante) o studiato. Hanno lasciato le loro famiglie e i loro numerosi fratelli per seguire un percorso che parte dal loro paese natale attraverso il Niger per arrivare poi in Libia.

Perché proprio in Libia? Perché le voci dicono ci sia lavoro, ciò che serve per vivere se pensi di non tornare mai più nel tuo paese natale. Ecco che i ragazzi vengono presi sotto la guida di libici che su auto e pick-up li portano attraverso altri stati e il deserto libico. É qui che inizia la decimazione dei giovani in viaggio: durante il tragitto nel deserto gli uomini vengono picchiati, le donne violentate. Molti perdono la vita a causa delle violenze subite o per la mancanza di cibo e acqua.

Dopo quasi venti giorni di deserto, chi è sopravvissuto arriva in Libia e cerca un lavoro. Qui le storie dei ragazzi si differenziano per piccoli particolari e c’è chi viene immediatamente imprigionato. Vivere nelle prigioni libiche è un’esperienza tutt’altro che semplice: stipati a centinaia in pochi metri quadrati, sorvegliati da persone armate, persino bambini. Le occasioni di fuggire sono poche, e quando succede, nel marasma del momento scoppiano sparatorie che decimano i prigionieri. Per alcuni di loro viene chiesto un riscatto alle famiglie di provenienza, altri invece durante il giorno vengono fatti lavorare. Come schiavi. Perché quando non sei libero di muoverti, vieni controllato a vista e picchiato quotidianamente, quando non hai una casa, lavori e non vieni pagato, sei uno schiavo.

Alcuni sono riusciti a guadagnare qualche soldo grazie a quelle che chiamano “good people”, rare persone che decidono di prendersi cura di loro, facendoli lavorare e remunerandoli. Quei soldi sono stati custoditi con grande cura, in attesa di poter essere utilizzati per fuggire. La frase che uno di loro ripete spesso è “it’s not easy”, non è semplice, anche se credo che le parole più giuste siano “è stato dannatamente difficile sopravvivere”.

Dalla Libia in piena notte sono stati imbarcati nei famosi barconi che tanto sentiamo nominare in televisione, sotto la guida di scafisti che non sono nient’altro che membri del gruppo di migranti.

Erano più di 190 in quella barca e con loro ne erano partite altre 4, ma due di queste sono affondate davanti ai loro occhi durante il tragitto. C’erano 27 donne di cui due incinte e 1 bambino. Avevano promesso loro due ore di viaggio, dopo 10 ore sono stati avvistati dalle navi italiane che li hanno portati in salvo. Arrivati a Trapani sono rimasti per tre giorni nella città e poi con un pullman sono arrivati in Toscana, ad Arezzo, dove la dottoressa Melina Chiara Paluani, responsabile del progetto di accoglienza dell’Associazione Tahomà A.P.S e l’avvocato Carolin Kiper, operatore legale dell’associazione, alle 3 di notte, li hanno portati a Soci nella loro nuova casa, per poi portarli il mattino seguente ad Arezzo per la visita medica.

Ho chiesto ai ragazzi come si sono sentiti una volta arrivati in Italia ed essere stati salvati, mi hanno risposto “excited”, emozionati, perché erano in un paese libero dove sapevano non sarebbero stati imprigionati solo per il colore della pelle, senza aver commesso alcun crimine. Tornare indietro? Non se ne parla, la loro casa è qui, dove per la prima volta hanno trovato qualcuno che potesse aiutarli a vivere una vita dignitosa, e dove possono forse dimenticare la Libia e la sua storia.

Parliamo adesso della dottoressa Melina Chiara Paluani, una delle donne che quotidianamente lavora con i ragazzi arrivati dall’Africa. Lei ha sempre operato nel sociale, fin da quando aveva 18 anni. Ha iniziato ad occuparsi dei richiedenti asilo durante l’emergenza Nord Africa del 2011 mentre lavorava per una cooperativa ed in seguito per altre associazioni. Agli inizi di quest’anno ha fondato l’Associazione Tahomà che ha all’attivo anche il progetto di accoglienza migranti. Ciò che Melina ci tiene a precisare e spiegare è l’aspetto economico della questione, troppo spesso travisato e frainteso: i famosi 35 euro al giorno per ogni rifugiato, per intenderci.

I ragazzi fanno parte di un progetto ministeriale finanziato dall’Unione Europea, quindi da tutti gli stati che ne fanno parte. Questi fondi sono esclusivamente riservati ai richiedenti asilo, non potrebbero mai essere indirizzati ad altri, ma non arrivano direttamente nelle loro tasche, come spesso si tende a pensare. I soldi arrivano all’associazione che si occupa di loro e che decide come impiegarli. Una piccola parte viene data ai ragazzi che potranno utilizzarla nel loro quotidiano. Gli altri invece vengono utilizzati per pagare l’affitto della casa dove vivono, per pagare le bollette, per acquistare vestiti, per il cibo e così via. Questo per dire che i soldi europei vengono poi riutilizzati in Italia il cui mercato ne beneficia.

Attualmente i ragazzi sono richiedenti asilo e tale richiesta viene fatta alla Commissione Territoriale che deciderà se possono avere o meno lo status di rifugiato. I tempi della Commissione possono essere lunghi, 6-8 mesi, anche un anno. Non possono lavorare per i primi due mesi dal loro arrivo in Italia, ma potranno fare lavori di volontariato. Sembra sia molto semplice, in realtà non è così, di nuovo la burocrazia italiana uccide la semplicità: servono permessi e assicurazioni che allungano i tempi.

I ragazzi rimangono nel progetto che li sostiene per un periodo limitato. Dal momento in cui la Commissione darà loro lo status di rifugiato, dopo un mese usciranno dal progetto. Se invece la Commissione dovesse dare esito negativo e i ragazzi facessero ricorso, rimarranno nel progetto fino al termine del ricorso. Va precisato però che possono cercare un lavoro fin da subito, e una volta trovato e diventati indipendenti usciranno dal progetto che li sostiene. Loro non vedono l’ora, abituati a lavorare fin da quando erano bambini: saranno iscritti al centro per l’impiego e frequenteranno dei corsi di specializzazione. Attualmente l’ostacolo più grande è la lingua, ma a breve per tre mattine a settimana frequenteranno un corso per imparare l’italiano e inizieranno a dedicarsi ad attività sportive che li faranno avvicinare agli italiani della loro età, riuscendo così ad integrarsi al meglio.

Parlando di integrazione, l’assessore del Comune di Bibbiena Matteo Caporali ha tenuto a specificare quale è la politica seguita dall’amministrazione. Una volta arrivati in Toscana la Prefettura emana dei bandi e l’associazione che vince il bando, come in questo caso l’Associazione Tahomà, richiede di accogliere e gestire i rifugiati. L’unico modo per permettere un’efficiente integrazione è però quella di accogliere pochi migranti distribuiti nei vari centri e la quantità viene definita facendo una proporzione con la popolazione attualmente residente nel comune: per quanto riguarda il Comune di Bibbiena la cifra si aggira attorno ai 40 rifugiati in totale. Per questo l’amministrazione si opporrà alla richiesta di grandi concentrazioni di migranti, non perché non vogliano accoglierli, ma perché sarebbe impossibile riuscire a gestirli efficacemente e permettergli di essere integrati nei paesi. Molto spesso le grandi concentrazioni di migranti vengono ospitati negli alberghi oppure da cooperative non locali, e dietro a questo si crea un business che il Comune di Bibbiena vuole evitare. Accogliere i richiedenti asilo non vuol dire cercare di far guadagnare pochi privati, ma cercare effettivamente di aiutare queste persone ad integrarsi nei nostri paesi senza danneggiare l’equilibrio dei paesani. L’Europa chiede accoglienza, e l’unico modo per fare accoglienza è proprio questo.

A loro mancano i genitori e i fratelli lasciati in patria, ma quando gli ho fatto l’ultima domanda: “What do you feel now?” Che cosa provate adesso? Hanno risposto: “We are happy”.

Come recita la Costituzione americana? Ah si: “Tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi siano dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, fra cui la Vita, la Libertà e la ricerca delle Felicità”.

(tratto da CASENTINO2000 n. 271 | Giugno 2016)

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