di Eleonora Boschi – Domenica 18 Maggio, presso il teatro Berretta Rossa di Soci, alle ore 17, Italo Galastri – autore del volume sul castello di Fronzola– presenterà il suo nuovo libro, questa volta dedicato a Sisto Bocci e al lanificio di Soci. «A quanto pare mi piacciono le storie dimenticate», ha detto con un sorriso, tra l’ironia e un filo di amarezza quando ci siamo incontrati.
Anche questa volta, Italo ci porta a scoprire un pezzo di storia casentinese ormai quasi scomparso dalla nostra memoria. Potrebbe sembrare che Fronzola e Soci non abbiano niente in comune: il primo, Fronzola, simbolo del Medioevo, fatto di pietra, castelli e mura secolari; il secondo, Soci, simbolo del Casentino industriale protagonista della rivoluzione laniera tra il 1800 e il 1900. Eppure, entrambi raccontano di una civiltà e della sua evoluzione e cambiamento nel tempo.
A metà dell’Ottocento, a Stia e a Soci si svilupparono le due importanti industrie tessili casentinesi, che, insieme, davano lavoro a più di mille operai. Era il periodo in cui la società agricola stava lasciando lentamente spazio all’industria e molti mezzadri, dopo aver abbandonato le campagne, trovarono una nuova opportunità in paese, fra i telai. A Soci, questo cambiamento venne accolto con molto entusiasmo e vennero anche costruite delle case vicino al lanificio in cui le famiglie dei nuovi operai si trasferirono.
In questo contesto, nel 1846, nacque Sisto Bocci, figlio di Giuseppe Bocci, proprietario del lanificio di Soci. Cresciuto fra un telaio e l’altro, Sisto seguì da subito le orme del padre e, ancora giovanissimo, venne mandato all’estero – in Belgio, Francia e Regno Unito, dove erano stati inventati i telai meccanici – per conoscere le nuove tecniche di produzione meccanizzata. Al suo ritorno, comprese subito quanto la realtà tessile di Soci, per quanto ben funzionante, fosse rimasta indietro: con i telai a mano, infatti, si producevano meno di due metri di stoffa in oltre dodici ore di lavoro e questo rallentava inevitabilmente la produzione.
Quindi, a poco più di vent’anni, insieme al padre, Sisto avviò un profondo processo di modernizzazione: introdusse nuovi macchinari e metodi, rendendo il lanificio un modello di innovazione per il territorio. Fin dai primi anni nel lanificio, la sua figura andò oltre la sola imprenditoria: Sisto era profondamente amato dagli operai, che lo vedevano costantemente in giro per il lanificio, giorno e notte, avvolto nel suo tabarro, sempre pronto a dare una mano o con una parola buona da dedicare ai suoi lavoratori.
Fu proprio in quegli anni che anche a Soci iniziarono a formarsi i primi sindacati e si iniziò a parlare di diritti. Durante i primi scioperi del lanificio, si racconta che gli operai cantassero “L’Internazionale” sotto la sua finestra. Invece di reagire con rabbia, Sisto ne fu fiero: quelle persone avevano una casa, un lavoro, e ora anche una coscienza dei propri diritti.
I primi scioperi chiedevano l’uguaglianza salariale tra chi lavorava ai telai manuali e quelli meccanici, e una riduzione dell’orario di lavoro. Rivendicazioni semplici ma rivoluzionarie, e anche in questo, Sisto fu una figura di passaggio tra due epoche.
Ma come ogni personaggio avanti con i tempi, Sisto fu anche al centro di pettegolezzi. Non si sposò mai, dichiarando apertamente che la sua vera compagna era la fabbrica. Tuttavia, nella sua vita c’era una donna: Maria, la domestica con cui ebbe una figlia. Questa relazione, vissuta fuori dalle convenzioni dell’epoca, suscitò scalpore. Italo però, ci racconta di come lui sia in realtà contrario a tutte queste dicerie.. e difatti, la verità venne rivelata al momento della morte di Sisto, nel suo testamento, dove lui riconobbe la sua relazione con Maria, lasciandole un vitalizio di 380.000 lire e rivolgendosi alla figlia come «la mia carissima figliola».
Sisto morì nel 1915, a Firenze, a soli 69 anni, dopo una lunga malattia. Fino alla fine, però, non abbandonò mai il lanificio. Alla sua morte, la gestione passò al nipote Adriano, figlio del fratello Ettore, ma la guerra lo portò via molto giovane quello stesso anno. Fu così che la famiglia Bocci, che aveva segnato la storia industriale di Soci, uscì di scena. Il lanificio venne venduto al senatore Bianchi, imprenditore del Regno, ma neanche lui riuscì a superare la crisi del ’29. A quel punto il lanificio passò nelle mani di diversi imprenditori, fino alla sua definitiva chiusura dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Una sorte simile toccò anche al lanificio di Stia, più grande e più antico. Ciò che unisce i due lanifici è un passato simile. Anche a Stia il passaggio dalla società agricola a quella industriale fu rapido e travolgente. Il lanificio non era solo un luogo di lavoro: attorno a esso si sviluppò un’intera comunità operaia, fatta di famiglie, scuole, spazi comuni, un tessuto sociale compatto che si identificava con la fabbrica e i suoi ritmi. Il tessuto Casentino, con il suo caratteristico pelo riccio e le tinte vivaci, divenne celebre ben oltre i confini locali, arrivando a vestire nobili e ufficiali militari.
Ma anche Stia, nonostante il suo prestigio, dovette affrontare le sfide del secolo: la concorrenza internazionale, i cambiamenti nelle tecnologie produttive, le guerre mondiali, e infine la crisi economica del secondo dopoguerra. La produzione si ridusse progressivamente fino alla chiusura definitiva, lasciando un vuoto profondo non solo a livello economico, ma anche culturale e identitario.
A differenza del lanificio di Soci, però, quello di Stia ha avuto la fortuna di essere riscoperto e valorizzato negli ultimi decenni. Oggi ospita il Museo dell’Arte della Lana, un centro espositivo e culturale che racconta la storia della lavorazione della lana nel Casentino e restituisce dignità e visibilità a un passato che ha segnato l’intera vallata, rappresentando non solo un luogo della memoria, ma anche uno spazio attivo di ricerca, didattica e promozione del territorio.
Per quanto importante sia stata la realtà stiana, anche Soci, con la sua storia parallela e le figure straordinarie che l’hanno animata, merita oggi un’attenzione nuova. È questo l’obiettivo del libro di Italo: riportare alla luce non solo le vicende di un uomo come Sisto Bocci, ma anche l’identità profonda di un paese che, tra fili di lana e rivoluzioni silenziose, ha partecipato da protagonista a una delle trasformazioni più radicali della storia del Casentino.
Italo ha deciso di compiere un grande atto d’amore verso il suo paese d’origine, che è, allo stesso tempo, anche una richiesta di giustizia per una figura importante come Sisto Bocci, a cui ancora oggi non è dedicata nemmeno una strada. «C’è via Giuseppe Bocci, c’è via Adriano Bocci, ma di Sisto, il vero motore di tutto, nessuna traccia» ci dice.
Così, dopo aver riportato alla luce Fronzola, uno dei castelli più rilevanti del Medioevo casentinese e oggi quasi dimenticato, Italo dedica il suo lavoro a un altro “dimenticato eccellente”, per il quale, oltre a tanta ammirazione prova anche affetto. I nonni di Italo, infatti, furono tra i primi mezzadri che nell’Ottocento lasciarono la vita nei campi per trasferirsi in paese e lavorare nel lanificio, segnando un passaggio epocale dalla civiltà contadina a quella industriale.
Un legame profondo, quello della famiglia Galastri, con la storia del lanificio e con la figura di Sisto Bocci: non a caso, il padre di Italo portava proprio il nome di Sisto, scelto in onore dell’imprenditore ottocentesco di Soci. E lo stesso nome è stato dato al nipotino di Italo e Franca, il cui nome è Darian Sisto, a testimonianza di una memoria familiare che si tramanda di generazione in generazione.
Quella di Italo è dunque una storia che affonda le radici in una tradizione di stima, riconoscenza e affetto verso una figura che ha lasciato un’impronta profonda non solo nella sua famiglia, ma nell’intera vallata casentinese.