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martedì, 13 Maggio 2025

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Un’anima sul tetto del mondo… Il viaggio in Nepal di Marco Fioravanti

di Melissa Frulloni – “Ci sono dei panorami bellissimi, è un luogo magico, in cui senti tutta la spiritualità del popolo che abita questi posti incredibili. La mattina ti svegli con l’odore di ginepro selvatico che brucia nelle incensiere e con i mantra in sottofondo che ti risuonano nella testa. Cammini con le nuvole che si spostano velocemente; ti attraversano banchi di nebbia e ti sembra di trovarti nel vuoto. Per gli Sherpa le montagne sono sacre, sono i primi templi che l’uomo ha venerato… C’è un intreccio potentissimo tra natura, spiritualità e “io”, mentre il cammino amplifica ogni cosa, ogni sensazione.”

Un’immagine bellissima quella che ci regala Marco Fioravanti della sua esperienza in Nepal. Giovane casentinese di Pratovecchio, è partito alla volta del campo base dell’Everest. Ci ha raccontato il suo viaggio; quello fisico tra le montagne più alte del mondo e quello mentale alla ricerca di qualcosa, alla scoperta di un’altra cultura… È partito per mettere un punto, per tracciare una linea nella sua vita: “Avevo bisogno di delineare un prima e un dopo, per capire che cosa fare, chi voler essere. E penso di esserci riuscito; non avevo bisogno di ritrovarmi, ma di confermare certe mie scelte. Il viaggio alla fine è da sempre uno strumento che serve proprio a questo, no?”

Raccontaci di più. «Ho deciso di partire per Nepal senza fare una selezione di aree geografiche o luoghi specifici da visitare. Avevo da sempre questo sogno, credo per colpa della Melevisione (ride), perché subito dopo andava in onda Geo Geo che molto spesso mostrava il Nepal nei suoi servizi. Un paio di settimane prima di partire mi sono informato sul trekking che avrei affrontato e mi sono fatto i vaccini necessari. La mia esperienza si è concentrata sul cammino; avevo necessità di impostarla in questo modo, ma ero anche molto curioso e felice di poter visitare le montagne più famose del mondo. Sono partito il 18 febbraio e sono tornato il 1° aprile, fermandomi anche in Tailandia per una quindicina di giorni; dopo il trekking, lì mi sono concesso dei momenti di relax prima di tornare in Casentino.»

Che tipo di trekking hai affrontato? «Essendo la mia prima volta in Nepal ho deciso di fare il percorso più iconico e, se vogliamo, anche il più turistico che è l’Everest Base Camp Trekking, che arriva appunto al campo base dell’Everest. Si tratta di percorsi fattibili per persone più o meno allenate, ma soprattutto volenterose; conta la predisposizione fisica, ma soprattutto quella mentale. I problemi principali che si incontrano lungo il cammino sono legati alla carenza di ossigeno e dipende molto come reagisce a questo il tuo organismo e la tua testa; non puoi farti prendere dall’ansia, devi monitorare il tuo corpo con attenzione e osservare i piccoli disturbi che percepisci, mantenendo calma e lucidità. Io mi ero portato un saturimetro che mi ha fatto diventare l’idolo degli altri trekkers (ride), in molti me lo chiedevano per misurare appunto la saturazione. È stata davvero una buona idea portarlo con me perché in alcuni momenti era davvero importante avere un riscontro “scientifico” delle mie condizioni e soprattutto di quello che percepivo.»

Ci sono delle regole per affrontare questo tipo di trekking? «Io ho seguito le regole himalayane. Una riguarda il cibo; è importante seguire un’alimentazione vegetariana, sana e leggera. Cibi troppo elaborati, ma anche la carne richiedono una quantità superiore di ossigeno per essere digeriti e questo può creare problemi. Gli Sherpa, il popolo che da sempre abita queste montagne, consuma un piatto tipico, diffuso tanto quanto la pasta in Italia, che è composto da riso cotto al vapore, accompagnato da una zuppa di lenticchie, spezie e curcuma. Loro dicono che una porzione di queste pietanze è capace di darti tutta l’energia che serve per affrontare la giornata.

Un’altra regola riguarda invece l’andamento da seguire durante il cammino; è necessario camminare lentamente! Chiunque trovi sul percorso ti dirà “slowly slowy”, sempre per evitare un deficit di ossigeno. È importante mantenersi in un regime aerobico, se spingi un po’ di più te ne accorgi subito: confusione, perdita di equilibrio, mal di testa, sono alcuni sintomi che insorgono quando manca l’ossigeno. In questi casi è bene fermarsi o anche scendere di quota per recuperare. Sì tratta quindi di un trekking molto rilassante. Inoltre la quota massima giornaliera di dislivello in positivo da non superare è sui 300/400 mt; non è molto, ma è una regola che è bene rispettare altrimenti diventa davvero complesso affrontare tutto il cammino.»

Dove ti fermavi a dormire? Come ti eri organizzato? «Si tratta di un trekking molto organizzato; stiamo parlando di una delle catene montuose più famose al mondo e davvero molto frequentata da turisti e trekkers… La valle è da sempre stata abitata e infatti ogni 10 km circa si trovano villaggi e insediamenti in cui è possibile sostare e ristorarsi. Gli Sherpa hanno convertito, per così dire, le loro abitazioni in bivacchi per i camminatori. Si tratta di strutture semplici fatte di compensato e lamiere, in cui non c’è chiaramente il riscaldamento o l’acqua calda. La differenza di temperatura tra dentro e fuori non è così diversa, ma sono comunque dei ripari che ti permettono di riposare e anche incontrare altri trekkers. Il freddo è secco e devo dire che l’ho affrontato meglio rispetto a quello delle nostre Alpi. Devo sicuramente ringraziare anche il mio abbigliamento tecnico che è stato fondamentale per resistere a quelle temperature. Dopo pochi giorni inizi comunque a farci l’abitudine; stai praticamente tutto il giorno al freddo e trovare, al mattino, l’acqua dentro alla borraccia ghiacciata diventa un’abitudine. Utilizzare l’acqua calda è comunque sconsigliato per problemi fisiologici; è facile ammalarsi e penso proprio che non sia una bella esperienza prendere un malanno in quel contesto…

Tutti i bivacchi sono dotati di una sala comune con una stufa in cui è bello ritrovarsi con gli altri camminatori sia per godere di un po’ di calore, che per bere un tè, che per condividere un momento o una riflessione. Ho conosciuto tantissime persone, ma il periodo che ho scelto per il mio viaggio era di bassa stagione; so che nel boom del turismo si contano fino a 2000 persone lungo i sentieri. A me ha fatto piacere sapere di non essere solo e che magari, dietro ad una curva, avrei incrociato qualcuno, ma sono stato altrettanto felice di poter fare il cammino in solitaria, potendomi ritagliare dei momenti solo per me, di riflessione e silenzio per capire appieno questa esperienza.»

Hai mai avuto problemi fisici o crolli mentali durante il cammino? «Ho fatto un percorso bello e lineare, sono solo dovuto scendere di quota un paio di volte perché avevo i classici sintomi dati dal deficit di ossigeno; questo mi ha buttato giù soprattutto dal punto di vista psicologico, perché la voglia di andare avanti e di arrivare a destinazione è tanta, quindi tornare indietro butta sicuramente giù il morale… Avevo diverse paure, prima di partire, legate a ciò che avevo letto sugli effetti negativi del così detto “mal di montagna” (come edemi polmonari o celebrali), poi in realtà una volta arrivato non ci ho più pensato ed è stata un’esperienza veramente molto bella. Il grande insegnamento che mi ha lasciato questo cammino è stato che se vuoi fare una cosa falla e vedrai che alla fine sarà molto meglio di come te l’eri immaginata.»

Come ti sei sentito quando sei arrivato al campo base? «Lì mi è arrivata una bella botta di adrenalina e ho scaricato tutte le emozioni che avevo accumulato nei 14 giorni che mi ci sono voluti per raggiungerlo (per scendere invece ce ne ho messi solamente due). La prima mezz’ora non sapevo letteralmente cosa fare, ero euforico e ho perso la concentrazione e la cognizione di me stesso e infatti mi sono venuti subito i classici sintomi della carenza di ossigeno. Ma la gioia era talmente tanta che lì per lì non ci ho pensato… Non riuscivo a togliere lo sguardo da queste lingue di ghiaccio che spuntavano da per tutto, le tende del campo base, gli alpinisti che si preparavano a scalare, e mi sono veramente emozionato. Ho iniziato a correre, a fotografare tutto e il mio regime aerobico ne ha risentito (ride), tornare indietro è stato impegnativo, ma ce l’ho fatta.»

Ti abbiamo potuto seguire sui social… «Sì, la sera facevo una specie di resoconto della giornata pubblicando post e storie. Serviva sia alla mia famiglia e ai miei amici che così sapevano sempre dove mi trovavo e che cosa stavo facendo, sia a me; ho usato i social come una specie di diario pubblico, per fissare i pensieri, ma anche per elaborarli e per mettere nero su bianco le mie emozioni e sensazioni e quello che avevo provato durante il cammino, mi è servito molto! Farò sicuramente altri trekking del genere, tornerò in Nepal e sul Machu Picchu, perché queste sono le poche esperienze nella vita che ti segnano profondamente.»

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