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mercoledì, 7 Maggio 2025

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Diario casentinese… d’Africa!

di Leonardo Previero – Sono tornato dal classico viaggio che cambia la vita. Una permanenza in Africa durata settimane. Sono partito insieme a una missione archeologica internazionale, sulle tracce dell’uomo preistorico. Meta: la sterminata e sperduta savana di Phinda, a Sud del Mozambico, nel Kwa-zulu-Natal (South Africa). Tralascerò per voi le innumerevoli ore di viaggio, già sufficienti a costituire esse stesse un diario, per dirvi invece dei panorami sterminati che ho veduto e che mai potranno trovare confronti. Abituato – come voi – alla meravigliosa vista da Poggio Scali o da Monte Falco (nel gruppo del Falterona) gli spazi aperti africani mi sono apparsi – questa volta – ancora più aperti, sconfinati, immensi, impossibili da descrivere o immaginare. Come da noi: un universo verde, verdissimo, a tratti – al contrario – quasi desertico, tormentato, arso, che ha dato all’uomo da sempre filo da torcere per ricavare i più comuni mezzi di sussistenza. Quaggiù le nostre fattorie leopoldine e sabaude, laggiù le “farms” dove arrivare a sera non è esattamente un programma prevedibile, con leoni, leopardi, ghepardi, jene, serpenti, etc etc. E tuttavia – onnipresente su ogni romanticheria – ha fatto scuola il lavoro della nostra spedizione riguardante la preistoria: sì, proprio come gli altri archeologi italiani che – giocando in casa – si sono ben distinti in Casentino nei campi arati presso Poppi (nel cosiddetto bacino “fluvio-lacustre” della valle, ricco di reperti). E dunque schegge, e selci e pietre utilizzate dall’uomo in ogni anelito di sussistenza.

Una particolarità curiosa, va rilevata: il concetto di “tesaurizzazione”, il concetto – cioè – di cosa si intende per archeologico e prezioso nel lontano continente. In Africa si dà importanza anche a manufatti di pochi lustri: una fattoria diroccata in savana degli anni ’30 – magari sbilenca – è importante come un nostro sito etrusco, degna dunque di essere scavata e trattata col massimo rispetto. Ed ecco allora la nostra missione, che al tempo stesso è stata incaricata di ritrovare antiche selci preistoriche quanto lattine di birra nemmeno troppo vecchie, remote grotte paleolitiche quanto discariche casalinghe di qualche massaia di 50 anni or sono. Tutto è infatti relativo, in Sud Africa, dove la popolazione è giovane e trovare un anziano nelle città è un’impresa già notevole date le malattie endemiche e l’AIDS in primis. E poi la straordinaria quantità di manufatti antichi: camminare per mezzora in un campo africano significa letteralmente raccogliere a piene mani pietre scheggiate come se piovesse. Il numero e il tipo dei remoti strumenti di lavoro – usati da uomini davvero prossimi a scimmie – è incredibile. Ogni oggetto raccolto da terra – si può star certi – ha avuto di sicuro altre mani sulla sua superficie non meno di qualche migliaio di anni prima. L’impressione atterrisce la mente umana. Conduce noi europei a sognare.

E dunque proprio come le ormai famose selci della piana intorno a Porrena, i manufatti africani (bulini, lame, punte, raschiatoi) narrano la storia dei nostri più antichi progenitori, le loro vite fatte di caccia e nulla più, le loro morti frequenti e precocissime. Il filo che lega l’Africa del Sud al Casentino è ovunque strettissimo, archeologicamente parlando. Il cosiddetto “continente nero” non è che un’amplificazione – ai massimi livelli concepibili – delle bellezze nostrane e “provinciali”. Per non parlare poi di altre similitudini: tutte quelle fondate teorie che vedono comunque noi uomini provenire proprio da quell’Africa dove ho volutamente messo piede con cuore casentinese e valligiano. Variando l’argomento: desta stupore anche il pericolo costante che l’archeologo locale deve affrontare. Se da noi un soggiorno in foresta è foriero forse di qualche incontro col cinghiale, nel Kwa-zulu-Natal non è auspicabile metter naso fuori dalla tenda nelle ore di buio, visto già il rischio diurno (che non è davvero poco). Nell’ordine la nostra missione si è infatti trovata faccia a faccia con le seguenti simpatiche creature: leonesse, rinoceronti bianchi e neri, ippopotami, serpenti “mamba”, ghepardi, jene, coccodrilli, ragni, nonché l’immancabile leopardo giunto in mezzo alle tende in piena notte in cerca di chissà cosa. Ricordare a questo punto gli ammonimenti del CAI, nostrani, sulla presenza della vipera o di quant’altro, diventa quasi ilare, in Africa, dove creature come il serpente “mamba” concedono al massimo qualche secondo di vita per un’ultima preghiera dopo il morso letale. E dunque ragni, scorpioni, scolopendre, zecche, insetti di ogni tipo, a ricordare che l’Africa è anche e soprattutto morte, distruzione, annientamento, lotta di classe.

Dopo poche ore ero già stato sufficientemente morso da ragni innominabili, e ricordo ancora con stupore l’addetto alle cure che mi chiedeva da quante zampe fossero composti, il colore e l’aspetto più specifico dei singoli assalitori. Già, è palese: perché in Africa, a differenza del Casentino, la cosa curiosa è che bisogna ben riconoscere ciò che ti morde, per poterlo poi ben descrivere al medico che appronterà le cure o le preghiere. Il concetto di morte – sulla stessa linea di pensiero – è dunque assai leggero e poco tragico in un popolo provato dalle tribolazioni e dove si fanno i conti da sempre con disgrazie e malanni. Abbiamo in effetti avuto proprio un’esperienza del genere, sfortunatissima e accidentale, dovuta all’improvvisa morte di un giovane ranger negli ultimi giorni. Il dramma non è stato poco, per noi “nordici”, ma credo al tempo stesso di non avere mai assistito a tanto conseguente fatalismo e successiva calma in tutti i componenti NON ITALIANI della missione. Una spiegazione più antropologica ci vede considerati – dai sudafricani – come mediterranei estremamente piagnoni, ipersensibili ed esagerati nell’espressione del dolore. “Ciò che non ti uccide ti fortifica” dice un casentinese quanto italico proverbio. Là, nella splendida Africa, “ciò che non ti uccide ti fortifica… fino alla prossima volta”!

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