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mercoledì, 4 Dicembre 2024

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La montagna non perdona

di Matteo Bocca – Anche quest’anno, come una triste consuetudine, è tornata alla ribalta la strage di turisti in montagna. Una strage che con il passare degli anni assume una rilevanza quasi bellica, come se ogni anno centinaia di turisti cadessero sotto i colpi sparati da un nemico muto e apparentemente immobile ma spietato e implacabile. “La montagna non perdona” è uno dei moniti che si imparano fin dalle prime esperienze nei luoghi in quota; che si tratti di alte cime, di ghiacciai (finché ci saranno), di foreste o di luoghi ameni e selvaggi, la montagna non perdona.

Gli incidenti avvenuti nel corso di questa estate hanno dimostrato ancora una volta che il problema è causato da due fattori principali che spesso si combinano insieme: il cambiamento climatico e l’aumento del turismo di montagna. Il cambiamento climatico si è imposto come fattore principale in quello che passerà alla storia come il disastro della Marmolada, una parte di ghiacciaio stabile da centocinquanta anni che improvvisamente collassa e travolge cordate di alpinisti ed escursionisti. Il secondo fattore invece ha a che fare con un turismo assetato di adrenalina ad ogni costo, di esperienze forti, e di tanti, tanti selfie. Di catastrofi anche ben peggiori di quelle della Marmolada ne sono sempre accadute e purtroppo continueranno ad accaderne con maggiore frequenza, secondo le previsioni oramai conclamate dei climatologi di tutto il mondo, ma il fattore umano è sempre stato determinante nel calcolo del numero delle vittime.

Proprio di questi giorni è la notizia dell’ennesimo crollo di una frana sul monte Cervino che ha evitato per un soffio alcune cordate salite in quota nonostante gli accorati appelli delle guide e delle istituzioni a non scalare la montagna per i troppi pericoli dovuti al caldo, e nel caso della Marmolada, basta guardare l’ora in cui è avvenuta la tragedia per comprendere che il turismo di montagna inizia ad assumere una dimensione preoccupante: le 13,45.

La montagna non perdona, e non fa sconti nemmeno a chi decide di violare un’altra delle sue regole fondamentali: si scala sempre di notte, perché di notte la montagna è più stabile per via della temperatura costante, ed è più difficile che scarichi roccia o ghiaccio o neve. Le montagne non sono accessibili su richiesta o prenotazione. Il loro respiro di pietra non segue il ritmo del calendario umano; la montagna non apre le porte delle sue valli e delle sue cime al ritmo delle attività lavorative, del tempo libero, delle comodità umane.

Salire cime a quote elevate inoltre non è per tutti. Non è turismo, è alpinismo. Significa anzitutto avere cognizione della propria preparazione fisica e tecnica, significa alzarsi all’una o le due del mattino e partire dal rifugio con le torce frontali nel buio pesto, con il freddo che morde le dita, per arrivare in cima appena inizia ad albeggiare, mangiare e bere qualcosa velocemente e poi scendere per rientrare al rifugio di partenza o destinazione entro le dieci, undici al massimo. Prima che faccia troppo caldo. I selfie sono superflui perché l’obiettivo è la cima, non i pochi applausi ricevuti da un post sul profilo social.

Frequentare la montagna significa conoscerla e rispettarla molto prima che andarci per fare sport o turismo. Conoscerla significa esperienza, rispettarla significa avere molto chiaro nella mente il concetto che si può partire la mattina e non fare più ritorno. Significa sapere che la montagna è fatica, dolore e paura. Chi la frequenta da anni sa bene che prima o poi succede un imprevisto, anche banale e l’esperienza in quei momenti può fare molta differenza tra avere paura e farsi prendere dal terrore, una differenza che separa spesso anche la vita dalla morte.

Il turismo moderno rispecchia però in pieno l’empietà con la quale troppo spesso gli avventori si avvicinano alla montagna. Il senso di onnipotenza che accomuna una fetta sempre più ampia di turisti e sportivi ha molto a che fare con il numero e il tipo di incidenti che avvengono in montagna, e con il tipo di società che ha iniziato a svilupparsi negli ultimi due decenni. L’avvento di nuovi strumenti come le e-bike e la diffusione di attrezzature da montagna a basso costo hanno accarezzato i sogni di molti sportivi che pensavano di passare dal Tapis Roulant di casa ai duemila metri di quota comperando semplicemente delle pedule, e riempito intere corsie ortopediche di ex giovanotti del ciclismo determinati a riconquistare anni che non torneranno.

Al di là degli inutili “mai più” puntualmente espressi nelle dichiarazioni dei politici dopo ogni strage annunciata, le responsabilità personali giocano e continueranno a giocare un ruolo determinante nel prevenire gli incidenti in montagna. La responsabilità personale che si traduce in buon senso, e buon senso significa saper rinunciare a un’avventura per le avverse condizioni meteo, per la mancanza di preparazione, per le difficoltà sottostimate, per lo stress accumulato durante la settimana di lavoro: per salvarsi la vita in cambio di una fetta di orgoglio.

Recentemente i collegi delle Guide Alpine di diversi settori dalla Valle d’Aosta alla Svizzera al Trentino hanno deciso di comune accordo di sospendere le salite alle cime delle loro montagne perché le condizioni meteorologiche non consentono ascensioni in sicurezza. Se c’è qualcuno deputato a decidere se la montagna sia sicura o meno, sono proprio i guardiani delle montagne, le guide, quelli che le risalgono ogni giorno per lavoro e per valutarne costantemente lo stato di salute, che è pessimo, e peggiorerà.

La prima soluzione al problema degli incidenti è quindi affidarsi sempre ad una guida esperta se non si hanno le competenze necessarie per frequentare l’ambiente della montagna o della foresta. La seconda, è convincere alcune guide (poche, per fortuna) che non vale la pena di rischiare la vita propria e dei clienti per portare a casa la giornata di lavoro. Fare la guida è un lavoro duro e impegnativo, che è stato come altri lavori flagellato dalla pandemia e dai mancati incassi che le guide hanno purtroppo scarsamente recuperato dallo Stato; è comprensibile che siano affamati di lavoro come tanti, ma la vita vale molto più di una giornata di lavoro. Vi è però un’altra soluzione che in alcune parti del Paese hanno iniziato ad adottare alcune amministrazioni locali o regionali: il controllo e la sanzione.

Ogni anno viene stilato dal Soccorso Alpino Italiano l’elenco delle chiamate più assurde effettuate da escursionisti che non avevano in realtà alcun bisogno di soccorso, il procurato allarme causato dagli improvvidi avventori della montagna costa un sacco di soldi alle comunità. In questi casi quindi, in alcune zone o regioni viene richiesto l’ingente rimborso spese di tutta l’operazione di soccorso, e il salasso è grave, basti pensare a quanto può costare far alzare un elicottero da terra. Lo scopo principale di queste sanzioni è quello di salvaguardare anzitutto la vita dei soccorritori, il secondo è di scongiurare interventi inutili a favore di chi ne ha realmente bisogno, e risponde inoltre a un’esigenza tanto semplice quanto antiquata ed efficace: colpirne uno per educarne cento.

Sempre di questi giorni è la notizia che il sindaco del paese di Saint-Gervais in Francia ha introdotto il pagamento di una cauzione agli alpinisti che intendono salire il Monte Bianco: 15.000 euro! Dieci per il costo medio di un intervento di soccorso, e cinque per le eventuali spese del funerale. La sfida che dovranno affrontare le amministrazioni che governano i territori di montagna consiste nel prendere atto che il turismo di massa sta portando ad un numero di incidenti direttamente proporzionale agli avventori che frequentano quei territori, e dovranno prevenirne il fenomeno mappando e informando in ogni modo i turisti e gli sportivi sulle caratteristiche dei sentieri e delle montagne che si apprestano ad affrontare a piedi, a cavallo o su due ruote.

Prevenire non sarà però sufficiente, e se il fine è la salvaguardia della vita di avventori e soccorritori (e del risparmio collettivo), le autorità saranno prima o poi costrette a prendere provvedimenti contro la spesa crescente di interventi effettuati per soccorrere persone rimaste a duemila metri con in mano le suole di scarponi vecchi di vent’anni, o una coppia che invoca aiuto atterrita per la presunta presenza di innocui lupi, e all’arrivo del soccorso erano già tornati in albergo sulle loro gambe. Il buon senso, tutto qui.

Un elogio va infine tributato a chi decide di mettere a disposizione il proprio tempo, e spesso anche la propria vita, al servizio di chi ha bisogno di essere soccorso in montagna. Sono gli uomini e le donne del Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico e dei Vigili del Fuoco. Volontari e professionisti del soccorso che si spendono instancabilmente per garantire un intervento sicuro e rapido nelle zone impervie delle nostre montagne. Gli angeli che arrivano dove non arriva nessun altro. Grazie per il vostro lavoro.

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