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lunedì, 12 Maggio 2025

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Una bella storia americana

di Cristina Li – La valle in cui tutti noi siamo cresciuti lascia poco spazio alle opportunità, ma tanto al cuore. Per cui è sempre una gran notizia quando un suo appartenente sceglie di volare via ed è sempre un piacere ascoltarne la storia. Ecco, dunque, il racconto di Costanza Galastri, in diretta dagli Stati Uniti, per aprire una finestra sul mondo a chi, invece, ha scelto di restare in Casentino.

«Mi sono laureata nel 1993 all’Università Cesare Alfieri di Firenze in Scienze Politiche, con una tesi sulle forze militari della NATO, poiché da sempre interessata al settore degli studi strategici e della sicurezza. Poco prima di discutere la tesi, ho chiesto ad alcuni docenti le opportunità che avrei potuto incontrare in Italia nel mio settore d’interesse; la loro risposta è stata “nessuna”.»

Così comincia la sua avventura: giovane laureata e appassionata, in cerca di un futuro dinnanzi a un Paese che tutto sembrava averle offerto, tranne un orizzonte su cui proiettarsi.

«Mi sono, quindi, dovuta piegare a fare un concorso nazionale, per segretario comunale, che ho affrontato a Roma nel 1996. Una volta rientrata nella graduatoria degli idonei, sono stata contattata dal sindaco di un comune del nord Italia per un incarico, ma una delle prime domande che mi è stata posta verteva circa le mie tendenze politiche: ho capito subito di avere poche chances, a meno che non avessi seguito l’estenuante “pratica delle raccomandazioni politiche”.»

Cosa fare, a questo punto? Su sollecitazione di un cugino, che vive in California dagli anni Settanta, la grande decisione di dare una svolta alla propria vita: spiegare le ali e prendere il volo, buttarsi nel nulla e provare a volare.

«Mi sono trasferita in California, in una bellissima città di nome Davis (tra San Francisco e Sacramento) e ho cercato di perfezionare il mio inglese scolastico, affrontando anche corsi aggiuntivi per il pieno riconoscimento della mia laurea italiana. A Davis c’è una delle università più importanti degli States in campo delle ricerche, in particolar modo della clonazione biologica, nella quale ho trovato un’occupazione provvisoria presso uno dei laboratori.»

Attiva sin da subito, non ha comunque perso la volontà di realizzarsi nei propri obiettivi: così, Costanza riprende gli studi presso la Johns Hopkins University – School of Advanced International Studies (SAIS), una delle università americane più importanti nel settore degli studi strategici e internazionali (oltre che nel campo medico).

«Ho potuto subito costatare la differenza con il mio Paese di origine: nel momento della mia iscrizione, sono riuscita ad ottenere una borsa di studio, un prestito dal governo americano, per pagare le tasse d’iscrizione e di frequenza (che sono molto alte e che ho, successivamente, rimborsato a rate con un tasso d’interesse minimo, dopo aver trovato un lavoro).»

La decisione definitiva di rimanere nell’ambito della sicurezza in seguito ad uno degli avvenimenti che più ha segnato la storia contemporanea: «La mia decisione deriva anche dal fatto che l’11 settembre 2001 mi trovavo a Washington, a pochi isolati dalla Casa Bianca, dove abitavo. Era l’inizio del mio secondo e ultimo anno alla Johns Hopkins University. Quello che mi ha colpito principalmente è stata la determinazione e la capacità degli Americani di cambiare completamente, sia nel pubblico sia nel privato, nel giro di pochissimo tempo. Ho visto – e vissuto – il passaggio dalla Washington focalizzata sul post-guerra fredda a quella che considera la lotta al terrorismo come l’elemento fondamentale in cui investire enormi risorse. Ho visto come tanta gente, che aveva una carriera in relazioni internazionali, ha perso il lavoro ed è tornata a scuola, anche a cinquant’anni. Non penso che un cambiamento così radicale possa avvenire facilmente in altri Paesi.»

Un’America dalle grandi prospettive e opportunità, quella vista da Costanza; un Paese dove poter cominciare a porre le basi per un futuro stabile e una vita da vivere: «Il master in “Strategic Studies” mi ha aperto enormi possibilità: si può dire che il giorno dopo aver terminato gli studi, ho immediatamente iniziato a lavorare, a Washington D.C., con una società che si occupa di sicurezza e di programmi per la sicurezza per conto del Ministero degli Interni Americano (U.S. Department of Homeland Security). In questi anni ho, in realtà, cambiato società e incarichi, ma rimanendo sempre nello stesso settore e sempre nella capitale. Sono, quindi, tredici anni che lavoro in organizzazioni di questo tipo, poiché Washington D.C. ne è il centro nevralgico, non solo degli Stati Uniti, dove sono svolte continuamente attività e ricerche.»

Di cosa ti occupi attualmente? «Dirigo un team di quindici ricercatori, che si occupa di risorse e programmi per la sicurezza in molte città americane. Il nostro è un lavoro di squadra, in collaborazione con molte altre agenzie e servizi di un settore molto complesso, nonché quello della rilevazione di agenti chimici, biologici, radiologici e nucleari in caso di attacco terroristico. Siamo, quindi, collegati a tutti quei servizi che vanno dal settore militare alle organizzazioni civili.»

Quali sono le differenze che hai potuto registrare con il tuo Paese d’origine, nel mono del lavoro? «Innanzi tutto, la più evidente è quella per cui, secondo la mia esperienza, non fai carriera per anzianità o per provvedimenti burocratici, bensì per merito: se il lavoro vale ed è svolto in maniera soddisfacente, se detieni un curriculum di esperienze accertate, è possibile trovare facilmente lavoro e, con la stessa facilità, cambiarlo dopo pochi giorni. Questo è: se dopo venti anni in un dato settore, decidi di cambiare totalmente, di tornare a studiare e iniziare una nuova carriera, non è mai tardi per farlo e nessuno lo trova strano. Secondo punto, che già ho citato ma che ci tengo a sottolineare: le assunzioni non sono fatte di raccomandazioni politiche, bensì è fondamentale il curriculum e il successivo colloquio che approfondisce ed esamina attentamente le referenze, ma soprattutto le capacità. Terzo punto: non è possibile lavorare sempre nello stesso posto e con lo stesso incarico. Il lavoro è e deve essere flessibile: se vuoi progredire e avere molte esperienze che arricchiscano la tua formazione e le tue possibilità, è fondamentale cambiare e ottenere competenze professionali accertate. Quarto punto: la società americana è estremamente aperta agli emigranti. Non mi sono mai sentita ”inferiore” e non sono mai stata trattata come tale dai miei colleghi perché non sono nata e cresciuta in America. Quinto punto: devi lavorare duro, essere costante e impegnato. Non c’è spazio per atteggiamenti politici o personali, per vittimismi o per le solite furberie. La trattativa “sindacale” è diretta e le tue capacità sono riconosciute, anche dal punto di vista economico.» Certamente il Nuovo Mondo si presenta – e viene presentato – come la terra salvatrice degli attivamente impegnati, degli emarginati, patria delle possibilità, di tutti. Ma non dimentichiamo che gli States non sono soltanto questo, che idealizzarlo è per gli ingenui.

«Certo, chi vuole vivere e lavorare negli States dovrebbe superare la fase degli stereotipi italiani derivanti dalla televisione e dal cinema. Questi vanno bene per un turista che segue i soliti circuiti turistici, i quali sono abbastanza lontani dalla vita reale. La società americana non è una società idilliaca, né facile; ci sono certamente contraddizioni e grandi differenze tra i singoli Stati. Voglio, però, ricordare che è molto raro che un treno arrivi in ritardo alla stazione, che un aereo non possa partire per uno sciopero improvviso dei controllori di volo o del personale che si occupa dei bagagli; è raro che le metropolitane non funzionino. Le buone scuole sono private, come le più sofisticate cure mediche (quindi, per avere le migliori cure, è necessario avere un lavoro e un’assicurazione privata); generalmente i musei sono gratuiti e, a Washington, il circuito degli Smithsonians è molto importante e ben organizzato.»

Presente, dunque, più che soddisfacente. Nostalgia di casa? «Certo: sono nata a Soci, ho vissuto in Casentino e ho frequentato l’Università a Firenze, per cui potete immaginare quanto, a volte, mi manchi il mio Paese, dove vive la mia famiglia di origine. Soprattutto, amo il mio Casentino: per il buon cibo, l’ambiente rilassante e idilliaco, per i rapporti sociali e di amicizia facili da intrecciare; mi piace la nostra famiglia estesa, la cura che abbiamo dei figli e la solidarietà che vi esiste all’interno. Per questo, cerco di tornare in Italia quasi tutti gli anni. Per quanto riguarda il lavoro, credo invece che in Italia – e, forse, anche in Europa – non sarei riuscita a esprimere tutte le mie potenzialità e non avrei avuto un futuro, se non come burocrate un po’ frustrato dalla cattiva politica.»

Per concludere… «Penso che ci sia ancora tanto da fare nel nostro mondo per poter costruire un Paese perfetto, ma sono contenta di avere una possibilità reale di “fare la differenza” in questo Paese che mi ha adottato e mi ha dato tanto.»

(tratto da CASENTINO2000 | n. 269 | Aprile 2016)

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