di Terenzio Biondi – Gli stiani e i pratovecchini – ormai è cosa nota a tutti – hanno una fantasia eccezionale, forse in ciò favoriti dalla storia della loro terra, che si perde nella notte dei secoli, e dalle tante leggende che là sono fiorite. A Stia e a Pratovecchio si parla di Lago degli Idoli e di Etruschi come di cose dell’altro giorno, di Dante come se avesse scritto la Divina Commedia il mese scorso e la sua permanenza a Romena risalisse a una settimana fa, di Arno come di un vecchio amico vicino di casa…
E hanno “battezzato” i torrenti affluenti dell’Arno nel tratto più a monte – cioè il tratto che scorre nel Parco delle Foreste Casentinesi – con tutta una serie di nomi frutto della loro fantasia costruttiva. Il primo affluente lo trovi nelle carte col nome di Fosso alla Rota, ma loro l’hanno sempre chiamato Arnino, un diminutivo affettuoso per indicare quasi un fratello minore, dal carattere buono e tranquillo. Poco a valle ecco l’Arnaccio, questo sì un vero discolo con un caratterino poco raccomandabile. E l’affluente subito sotto, che vien giù quasi a rotta di collo nella gola tra Monte Acuto e Poggio a Scheggi, l’hanno battezzato Fosso dell’Inferno, in onore – credo – dell’amico Dante.
Non dovete pensare che il Fosso dell’Inferno sia un fosso maledetto, difficile, un fosso da lupi… Anch’io credevo che fosse un vero e proprio fossaccio; poi, alcuni anni fa, spinto dalla curiosità e dai consigli di qualche amico pescatore di Stia, decisi di andare a vedere. E non me ne sono pentito. Era estate piena e penai non poco a raggiungere la confluenza del Fosso dell’Inferno nell’Arno a causa della rigogliosa vegetazione di basso fusto che in alcuni tratti copriva letteralmente il sentiero. Ma poi… che spettacolo!
Una cascatella dietro l’altra, con buchette e pozze dall’acqua limpidissima, e sulle rive ombrosi faggi e massi ciclopici rivestiti di verde muschio. E tante trotelle nell’acqua bassa della riva che schizzavano via velocissime al mio avvicinarsi. C’è un solo modo per catturare trote di taglia discreta in tali situazioni: pescare stando lontani dalla pozza, alla casentinese, con un metro o poco più di lenza. E io con la mia telescopica di otto metri non avevo problemi! Volli anche strafare.
E in un paio di pozzette molto lunghe, tirato fuori dallo zaino il mio inseparabile “lancino da fosso” con un cucchiaino piccolissimo (addirittura un Mepps Aglia n° 0), provai qualche lancio da lunga distanza. Con risultati niente male, come dimostra la foto qui sotto. In un paio d’ore di pesca riuscii a catturare… no… il numero di trote non ve lo dico. Altro che Inferno – dicevo tra me mentre tornavo all’auto – questo è un vero Paradiso!
E da allora tutti gli anni un paio di pomeriggi nel Fosso dell’Inferno me li faccio sempre. E non sono mai tornato a casa con il cestino vuoto.
(Rubrica I RACCONTI DEL TORRENTE “Storie vere, leggende, incontri… nei torrenti del Casentino” di Terenzio Biondi)