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martedì, 19 Marzo 2024

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Per una sanità «davvero» pubblica!

di Mauro Meschini – È un post del 7 febbraio su Facebook che ha lanciato un invito a tutti: «Riproviamoci!… una Proposta di Legge popolare per un Servizio Sanitario Nazionale esclusivamente pubblico, abolendo convenzioni, società miste e mercimoni vari».

È un invito forte, che prende atto dello stato disastroso in cui è stata trascinata la sanità pubblica, un invito che forse è anche l’ultima spiaggia se vogliamo vedere rispettato l’articolo 32 della Costituzione: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti…».

Abbiamo subito cercato Giuseppe Ricci (nella foto sotto) che non ci ha solo spiegato come questa idea verrà portata avanti ma, grazie alla sua lunga esperienza nella sanità, ha reso ancora più chiara e palese la situazione in cui ci troviamo, le criticità, le scelte volutamente sbagliate che hanno progressivamente indebolito e reso sempre più marginale la sanità pubblica.

Tanti sono i responsabili, di tutti gli schieramenti, per le scelte sempre penalizzanti e orientate a politiche di sostegno della privatizzazione. Con una accelerazione che Ricci individua nella lettera riservata del 5 agosto 2011 inviata dal governatore uscente della BCE JanClaude Trichet e da quello in pectore Mario Draghi, al governo italiano, all’epoca presieduto da Silvio Berlusconi.

«In quella lettera c’erano tre aspetti su cui si puntava l’attenzione. Il primo era che a rappresentare lo stato e a garantire per lui ci fosse una figura della massima integrità, e Berlusconi in quel momento non poteva garantirlo. Il secondo auspicava una sostanziale riduzione dei salari e della forza lavoro. Poi il principale era quello che indicava fondamentale la privatizzazione dei servizi pubblici. Da lì poi arrivò il governo Monti e quello che è venuto dopo e adesso cosa è rimasto di pubblico? Quasi più niente. Quattro medici in un ospedale, poi gli altri che vengono presi da fuori a prestazione spendendo molto di più…».

Ecco a proposito di questa modalità del medico a gettone. Se non ci fosse la domanda non ci sarebbe neppure l’offerta, quindi è proprio una scelta quella di utilizzare medici esterni indebolendo il proprio personale interno. In caso contrario non si capisce perché le ASL non rifiutano di spendere in maniera così irrazionale… «Il problema è che le ASL non hanno nessuno potere di programmare quanti pediatri, anestesisti o radiologi servono e si trovano chiaramente scoperte… Mi ricordo che proprio a proposito della programmazione sulle necessità del personale ad Arezzo fummo i primi ad utilizzare una norma con cui sostenevamo i percorsi formativi universitari per avere un numero di specializzandi più alto di quello programmato dalle università. Finanziavamo da Arezzo le quote di iscrizione alla scuola a condizione che lo specializzando venisse poi a svolgere il servizio presso la nostra USL».

Praticamente era un modo per prenotare e formare il personale di cui ci sarebbe stato bisogno… «Si. Questo fra l’altro era molto in linea con la fase precedente in cui esistevano tre figure professionali: l’assistente, l’aiuto e il primario. Si poteva assumere un laureato, per esempio in ortopedia, ma non poteva essere considerato subito un ortopedico, quindi si inquadrava come assistente e dopo cinque anni di esperienza diventava ortopedico, quello era il famoso ospedale di insegnamento. Era un grande potere che avevano le USL dell’epoca. Poi arrivarono le università che volevano in esclusiva pensare alla specializzazione del personale e da lì sono nate tutte le criticità e la poca trasparenza che questa gestione ha portato. Se cominciamo a limitare le situazioni non del tutto chiare, riusciamo a ridurre anche gli effetti negativi, si tratta semplicemente di rimettere in piedi un minimo di orgoglio di tornare ad essere dipendente pubblico. Avere professionisti che lo scelgono, guadagnano una giusta cifra e non si prostituiscono per inseguire il dio quattrino».

Restituire un ruolo al servizio pubblico ma anche una organizzazione che sia razionale e legata ai territori, già il referendum presentato nel 2015 considerava totalmente negativa la creazione delle aree vaste… «I danni provocati dalla Regione con questa «ASLona» sono ormai sotto gli occhi di tutti, vogliamo forse incolpare di tutto il buon Antonio D’Urso (Direttore Generale Asl Toscana sud est:, n.d.r.)? Che dovrebbe avere in testa, oggi come oggi, i problemi che ha Montemignaio (comune in provincia di Arezzo, n.d.r.) con quelli di Sorano (comune in provincia di Grosseto, n.d.r.), impensabile. Per andare da Arezzo all’isola del Giglio gli occorrerebbe un giorno, non è possibile che si sia potuto prevedere un’organizzazione del genere. Anche il ruolo dei sindaci, soprattutto dei comuni più piccoli, quale può essere in un’assemblea di più di 300 persone. Il sindaco di Arezzo si vantava di avere la sede legale della ASL, si ma quella operativa dove è? A Siena. Chi comanda allora? Siena! Che ha anche l’Azienda Ospedaliera. Parlando poi dal punto di vista operativo e professionale chiediamoci per esempio per un ospedale come il San Donato di Arezzo cosa significa la presenza degli elicotteri. Certo può essere una garanzia in casi particolari, ma dobbiamo sapere che questo porta altrove i pazienti e al San Donato non si trattano più i casi critici e non si vedono più le complessità».

Perché per la nostra area tutto viene spostato su Siena … «Questo porta a perdere la professionalità. Ma se depauperi la tua professionalità perdi completamente il tuo ruolo che porta anche ad una carenza della capacità operativa. Oggi si sta tutto centralizzando in questi poli critici…».

In pratica i poli universitari di Firenze, Siena e Pisa… «Si, perché si deve ridurre di molto la capacità professionale all’interno degli ospedali provinciali e peggio ancora in quelli zonali».

Preso atto di questi tanti aspetti negativi e della direzione che si è imposta alla sanità quali sono i punti forti della legge sul nuovo servizio sanitario che sarà presentata? «Prendiamo atto della struttura che abbiamo ma indichiamo con precisione i compiti di ogni soggetto. Lo stato programma, pianifica e costituisce i fondi. Le regioni programmano, pianificano ma i fondi che ricevono dallo stato li danno direttamente alle province che così diventano organi di gestione».

Quindi le regioni non gestiscono più direttamente l’erogazione dei servizi? «Li togliamo la gestione. Hanno il potere della programmazione, della pianificazione, del controllo ma la gestione la facciamo tornare vicino ai cittadini. L’organo che può svolgere questo compito è la provincia, adesso praticamente espressione dei consigli comunali, abbiamo quindi anche un coinvolgimento dell’ente locale in quanto è lui che nomina l’amministrazione provinciale. La provincia rappresenta adesso tutti i comuni del suo territorio e sostanzialmente è priva di funzioni, un po’ di edilizia scolastica, trasporti. Quindi avrebbe questo grande compito organizzativo attraverso la sua USL provinciale, che non è un’azienda ma un organo espressione diretta della provincia. Nomina lei il direttore generale e le altre figure. Questa proposta è basata su una chiara distinzione dei compiti tra stato, regioni e provincia. Naturalmente questa sarebbe una rivoluzione rispetto all’attuale sistema. Anche perché poi dobbiamo iniziare a dire che se il servizio è pubblico lo gestisce il pubblico quindi niente più cooperative, niente più case di cura convenzionate, non più studi convenzionati…».

Quindi il pubblico deve essere autosufficiente e in grado di garantire direttamente tutti i servizi necessari? «Si, con il suo personale, con il pubblico che naturalmente assorbirà anche gli operatori che attualmente lavorano in cooperative, case di cura o altrove. Queste non sono cose impossibili, basta avere la volontà di farle».

E concretamente come saranno strutturati i servizi erogati? «Per spiegare come potrebbe essere attuata questa nuova organizzazione possiamo prendere Arezzo, che per me è un prototipo. Avremo un’unica USL provinciale che avrà una sua Casa della Salute per ogni centomila abitanti, questo significa una ad Arezzo e una in Valdarno dove collochi tutto: dall’emergenza, al medico di base, al pediatra, la specialistica, la diagnostica, TAC, risonanza, posti letto di osservazione, pronto soccorso territoriale, l’ospedale di comunità, la RSA, il sociale, tutto. Un cittadino entra e trova le risposte ad ogni suo bisogno dalle necessità mediche, alle prestazioni sociali, fino alle pratiche amministrative. Da ricordare che tutto questo a livello legislativo esiste già, solo che non viene realizzato. Ora si aprono luoghi dove si collocano insegne ma non si prevedono i servizi. Naturalmente poi queste Case della Salute verranno ridimensionate in base all’utenza, in un bacino di centomila abitanti si avranno strutture diverse da un contesto di trentamila. In Casentino, per esempio, questa Casa della Salute è una struttura affiancata all’ospedale in cui si trovano alcune funzioni come medicina interna, cardiologia, ortopedia. Così si avrebbe un contenitore unico in grado H24 di rispondere ad ogni esigenza. In una zona disagiata come San Marcello Pistoiese prevedi la Casa della Salute e almeno un reparto di medicina interna così che un paziente con problematiche di carattere medico abbia delle risposte».

Quindi avere possibilità di degenza e osservazione? «Si, certo. Ci sarebbe il Pronto Soccorso e la possibilità di trovare subito accoglienza poi nel caso di situazioni problematiche o gravi il trasferimento in ospedale. Il bello della nostra sanità negli Anni ‘70 era che eri comunque accolto. Poi fu introdotto il pagamento legato alle giornate di ricovero, più il paziente rimaneva in ospedale maggiore era il rimborso. Così non va, ma neanche come adesso, che anche se dimetti prima hai gli stessi soldi. Dobbiamo trovare una mediazione che porta a togliere l’ospedale per acuti ma ti obbliga ad avere tanti posti letto per il bisogno che c’è. Se una persona deve rimanere in ospedale sette giorni ci rimane per sette giorni! Non mi importa delle valutazioni di qualità e dei premi per le dimissioni anticipate, oppure dei day hospital forzati. Si va a casa quando si è in condizioni di farlo, si ritorna ad una presa in carico non più legata ai parametri di efficienza ed efficacia che sono solo di carattere economico e non di carattere sostanziale. Quindi la casa della salute diventa il perno del sistema, un luogo dove sei preso in carico immediatamente, non viene tutto rimandato ad altri appuntamenti o controlli successivi, hai subito la presa in carico del bisogno socio-sanitario questa è la grande rivoluzione».

Un sistema in cui se hai bisogno di fare esami per valutare un problema non devi fare in successione TAC, esami, visite di controllo, magari anche ripetute più volte nel corso di vari mesi. In questo modo se viene rilevata una necessità si prevedono alcuni giorni per un check up completo e si ha subito una diagnosi? «Certo, è questa la presa in carico. Mentre oggi si opera diversamente… hai notato che non si fanno più TAC e risonanze magnetiche a breve. Ma non perché manca il personale o le attrezzature, ma perché si sta cercando di coinvolgere il privato. Rinviare le prestazioni obbliga a rivolgersi al privato, si spinge poi perché tutti facciano polizze assicurative. Così tutti pagano queste polizze ma per avere gli stessi diritti che avevi prima e che dovresti vedere garantiti comunque perché versi già le tasse. Non si capisce perché devo pagare anche una assicurazione, ma tutto questo fa parte del gioco. Occorre avere il coraggio e dire basta! Questo giochino lo sospendiamo. Si può chiedere che fine faranno le case di cura e gli istituti medici… Lavoreranno con chi ha soldi e chi comunque non fidandosi del pubblico vuole andare nel privato, magari usando la polizza assicurativa che si possono permettere… Basta con la porta girevole tra pubblico e privato. Tra l’altro perché oggi non c’è più interesse a diventare dipendente nel pubblico e si preferisce andare nel privato… perché quando il privato ha la certezza che in un determinato numero di anni farà per la ASL un certo numero di prestazioni potendo prevedere quante risorse questo porterà è in grado di andare sul mercato chiamare i medici migliori e dare alte percentuali per gli interventi che saranno effettuati. Per un intervento da 15.000 euro, per esempio, il medico può anche prendere il 30%. Chi può continuare a scegliere di andare nel pubblico quando nel privato c’è questa garanzia di guadagno? In questa maniera il pubblico perde anche la qualità professionale».

Tornando all’organizzazione sui territori, per il Casentino potremmo quindi avere questa Casa della Salute vicina all’ospedale, con il Pronto Soccorso, la possibilità di degenza e tutto il resto. Ma le Case della Salute che già ci sono negli altri comuni, almeno sulla carta? «Prima si prevede la struttura centrale a Bibbiena per il bacino del Casentino che ha circa trentamila abitanti. In cui ci sono un certo numero di medici di base, di pediatri, di specialisti… ci deve essere tutto. Naturalmente le attrezzature saranno adeguate al numero di abitanti e per esempio ci sarà una sola TAC che posso usare per ospedale e Casa della Salute, questo il vantaggio di avere tutto insieme. Per le altre realtà si prevedono delle proiezioni. Per esempio, di cosa ha bisogno Montemignaio?… Un ambulatorio con medico di base, pediatra e infermiere per alcune ore al giorno si potrà prevedere, così come in altre zone decentrate come Badia Prataglia o Pratovecchio Stia… ma queste sono le proiezioni successive, alla base c’è il contenitore in cui si trova tutto. Se è così si può essere disposti a fare anche mezz’ora di macchina sapendo di avere la certezza di una risposta. Questa è la rivoluzione, la certezza della risposta H24 concentrata in un unico contenitore».

Quindi nei vari comuni avremo più o meno quello che c’è oggi con in più una forte offerta di servizi e prestazioni a Bibbiena. E per il servizio di emergenza urgenza. Visto anche i problemi che in Casentino negli ultimi tempi vedono le ambulanze intervenire senza il medico? «La base è sapere di chi è l’emergenza territoriale, è della Casa della Salute? A questo punto mi organizzo e si deve valutare ogni volta di cosa abbiamo bisogno e quindi chi fare partire. L’esperienza che abbiamo ci dice che nella gran parte dei casi è sufficiente l’ambulanza con l’infermiere a bordo che determina la gravità della situazione. Il problema è presidiare i punti e questo va fatto valutando la statistica. Sapendo statisticamente quante chiamate ci sono in un dato periodo di tempo si prevede un adeguato numero di ambulanze, non c’è da inventare niente. Ma la parte determinante è che io non delego più niente a nessuno, mi assumo io la responsabilità di come sono organizzato, l’emergenza urgenza la faccio direttamente…».

Quindi con operatori sulle ambulanze… «Dipendenti direttamente dal pubblico».

Questa ripubblicizzazione della sanità riporta servizi e controllo sui territori, ma anche dal punto di vista economico ha dei vantaggi… «Si deve riportare tutto nell’alveo pubblico potendo contare su quanto dimostrato da tutti gli studi scientifici: tutte le volte che il pubblico gestisce direttamente il servizio questo costa di meno. Perché il privato che gestisce un servizio ha bisogno sempre di avere un ritorno economico che si aggiunge al costo reale delle prestazioni».

In pratica sarebbe come ritornare al momento in cui è nato il sistema sanitario nazionale, con tutta la forza e la partecipazione che aveva. Ma quanto davvero quel sistema è stato presente senza di essere pesantemente rimesso in discussione? «Dal 1979 fino al 1992… I principi non erano sbagliati, ma per esempio un problema fu non aver messo ai comitati di gestione l’obbligo di finalizzare i soldi alla sanità. Così ci sono stati comitati che hanno finanziato le squadre di calcio o altro a fini elettorali. Inoltre quando DC e PCI si accordarono per fare la Legge 883/78 furono necessari dei compromessi che oggi dobbiamo evitare, per esempio il medico di base era previsto come dipendente ma fu necessario subire la convenzione, così come per il pediatra di libera scelta. Ma potrà mai esistere un sistema in cui il fondamento, la prima base non dipende da te ed è convenzionato?».

Quindi tornare allo spirito degli Anni ‘70 ma senza i limiti che allora furono presenti? «Dobbiamo tornare alle origini perché i principi sono sacri, la Legge 883/78 dal punto di vista dell’obiettivo del benessere, della presa in carico sul territorio, della prevenzione era perfetta, c’era tutto, era meravigliosa. Cade nei tranelli quando la gestione non ha un chiaro interlocutore politico. Per questo adesso prendiamo la provincia e il cittadino sa chi è il responsabile. Il progetto è questo. Ho aperto una chat e sono subissato di richieste. Dobbiamo costruire una struttura solida per fare una raccolta di firme nazionale e avere anche la certezza di fare una proposta che sia giuridicamente perfetta. Ci potrebbero essere le condizioni per trovare anche un vasto accordo su una proposta così rivoluzionaria».

Quale soggetto sta lanciando nel complesso la proposta? «Chi parte adesso è il Comitato Toscano Sanità e altre associazioni che hanno già cooperato insieme».

E i rapporti con il resto d’Italia? «Stanno maturando e si stanno allargando».

Si parte dalla Toscana per guardare a tutto il Paese... «Si parte con chi si conosce e si punta a crescere in ogni realtà».

Che tempi saranno necessari? «Ci siamo dati come tempi il mese di marzo per raccogliere le disponibilità a portare avanti il progetto. Una volta assunte le disponibilità il tempo tecnico per avere una proposta di legge che sia costituzionalmente valida, pensiamo entro la prossima estate. Tutti questi passaggi vedranno sempre incontri che di volta in volta organizzeremo per rendere a tutti quanti noto quello che stiamo facendo».

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