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sabato, 27 Luglio 2024

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Marzia Marzenta, rotta verso l’Africa alla ricerca della… verità

di Riccardo Buffetti – Cosa porta una giovane a studiare il fenomeno delle migrazioni, oggi? Partiamo dalla premessa che questa è una tematica delicata e molto rovente se la inquadriamo nell’attuale dibattito della nostra penisola. Quotidianamente si ascoltano diverse opinioni su questo argomento, ma parlarne non vuol dire conoscerne a fondo la verità: disinformazione e fake news oggigiorno assediano la nostra mente, creando a volte un’immagine distorta della realtà. E allora, può essere la ricerca del perché avvengono questi processi il motore che spinge alcune persone ad andare in altre Nazioni e continenti?
Prendiamo il caso di Marzia Marzenta, studentessa di 24 anni dell’Università di Valencia e originaria di Capolona – siamo più precisi: Giglioni, frazione del territorio -, che negli ultimi mesi ha deciso di intraprendere un tirocinio curricolare in… Sudafrica!

Marzia, com’è nata l’idea di intraprendere questo tipo di esperienza?
«Nel mio percorso di studi in Spagna (Valencia, n.d.r.) è previsto un periodo di tirocinio obbligatorio, e tra le diverse destinazioni che potevo scegliere c’era il Sudafrica. Avendo iniziato la magistrale in “Studi sulle migrazioni” diciamo che l’obiettivo era già fissato e uscire dall’Europa mi incuriosiva; nella mia esperienza universitaria mi sono trovata spesso a fare le valigie per spostarmi in altre realtà, ma non ero mai uscita dal contesto europeo. E poi ho sempre voluto studiare i fenomeni migratori sotto altri punti di vista rispetto a quello eurocentrico, dato che, sia in Italia che in altri paesi occidentali, l’informazione sul tema viene spesso manipolata. Partendo da questa idea ho deciso di scegliere il centro di ricerca a Cape Town come meta per il tirocinio, dove vivo da due mesi».

Quali attività svolgi?
«Per lo più mi occupo di ricerca e di pubblicazione di articoli e altri contenuti sui social media e sul sito web dell’organizzazione “SHIMA – Scalabrini Institute for Human Mobility in Africa”. Tramite news, ricerche, webinar o corsi di formazione vengono trattati argomenti specifici sui movimenti migratori all’interno del continente africano e verso l’esterno, tra cui: la tratta di esseri umani, la situazione delle donne migranti in viaggio, etc. Il centro ha aperto un progetto a Johannesburg, collabora ad un progetto in Sierra Leone e si sta aprendo ad altre novità».

Cape Town, in italiano Città del Capo, sede parlamentare del Sudafrica. Che ambiente ti sei trovata di fronte?
«È una città piena di contraddizioni. Ha delle zone ricche, equipaggiate di tutto, apposite per il turismo e per accogliere un target di persone di livello sociale medio-alto. Può assomigliare ad altre città europee se ti concentri solo lì. In questo modo però non riusciresti a vedere il 100% della realtà del posto. I maggiori investimenti sono stati realizzati in punti strategici, come il porto, e in altri quartieri che, ai tempi dell’apartheid, erano stati progettati solo per le persone bianche. In questa città c’è molta disparità in merito. Alle spalle c’è una storia di schiavitù: in passato Città del Capo veniva utilizzata come zona di arrivo per gli schiavi dall’India, dall’Indonesia e da altre zone dell’Africa. Il loro destino? Essere venduti e venire utilizzati come forza lavoro, in particolare nelle piantagioni del Centro e del Sudamerica. Questi eventi hanno fortemente segnato le sorti del Sudafrica e degli altri paesi africani – sono state trattate oltre 12 milioni di persone.
Se ad un paese togliamo le persone giovani, in età lavorativa, cosa rimane?
Successivamente, dopo la schiavitù, nel 1948, è arrivato l’apartheid; il periodo di segregazione razziale in cui la popolazione è stata divisa in tre “categorie”: bianchi, indiani e neri. Ogni gruppo aveva differenti gradi di libertà e di limitazioni riguardanti i diritti civili, politici, economici e sociali. Accanto a dove abito c’è il Distretto 6, un quartiere in cui il governo sudafricano, durante l’apartheid, ha fatto sfollare tutta la popolazione nera e di colore in zone esterne alla città, per demolire e ricostruire nuovi palazzi adibiti esclusivamente alla popolazione bianca. Scacciate dalla città, le persone sono state mandate a vivere in “insediamenti informali”».

Qual è la situazione attuale: è stata superata questa profonda ferita?
«Non del tutto: diciamo che in generale ancora le persone che vivono qua hanno nella loro cultura questa categorizzazione rispetto al colore della pelle. Ovviamente, non tutta l’erba è un fascio: dipende molto se parliamo con persone giovani o più adulte. Basti pensare che le leggi di segregazione razziale istituite con il regime dell’apartheid sono state abolite solo nel 1994, quindi l’imposizione si era già fossilizzata nelle menti. Purtroppo, l’esistenza degli insediamenti informali mostra come ancora oggi ci sia disparità e separazione: la maggior parte della popolazione in Sudafrica vive lì. Al loro interno ci sono scuole, ma non offrono la stessa qualità d’istruzione di quelle di città, questo rende più difficile per i bambini crescere per migliorare la loro condizione economica e sociale. In queste zone spesso manca acqua corrente, le case in muratura, le strade asfaltate, i servizi igienici appropriati, cosa che comporta gravi disagi. Gli ospedali sono in città, per questo l’accesso ai servizi di salute in queste comunità è più difficile».

In più si è aggiunta la pandemia e la nuova variante Omicron.
«Facciamo una piccola premessa: molti dicono sia nata in Sudafrica, ma in realtà è semplicemente stato il primo luogo dove è stata scoperta e dove è stato dichiarato di aver rilevato un’altra variante. Qua ci sono ottimi centri di ricerca. Riguardo alla pandemia: fino alla fine di dicembre c’era il coprifuoco da mezzanotte alle quattro di mattina. Io sono stata in ospedale, proprio a causa del Covid, ma non per la sua gravità, solo per un tampone. Il medico con il quale ho parlato mi ha riferito che i casi arrivati in cura erano di persone che non avevano bisogno di ospedalizzazione, ma con dei semplici sintomi lievi di un’influenza; come li ho avuti anch’io. Gli ospedali privati sono ottimi: mi hanno addirittura assistita facendomi sdraiare su un lettino con una coperta, ma senza assicurazione medica o pagamento diretto non ti fanno nemmeno entrare nell’edificio. Potresti essere assistito in un ospedale pubblico, ma lì il servizio è più scadente. In ogni caso, tornando alla pandemia, non si conoscono i danni che ha procurato nelle comunità informali: lì non tutte le persone sono registrate all’anagrafe».

Quello che hai potuto confutare in questi mesi è in linea con i tuoi obbiettivi presenti e futuri?
«Certamente: come ho detto all’inizio dell’intervista, il mio obiettivo principale era appunto poter studiare le migrazioni dal punto di vista del continente africano e devo dire che sto imparando molto al centro SIHMA. In futuro vorrei utilizzare queste conoscenze per far capire alle persone che molti dei miti su questo tema non corrispondono alla realtà. Ad esempio, la destinazione più comune dei migranti internazionali africani non è l’Europa, ma altri paesi africani. Non dimentichiamoci che le migrazioni sono dei fenomeni normalissimi che esistono sin dall’inizio del genere umano. Dietro ad un processo migratorio ci sono fattori sia interni che esterni ad un individuo, tra questi, le situazioni di instabilità e conflitto in alcuni paesi. Quest’ultime sono frutto di eventi del passato, e se conosciamo la storia coloniale e della schiavitù… beh, alcuni paesi europei non possono esimersi da colpe. Ogni persona dovrebbe avere il diritto di potersi muovere da un luogo all’altro per cercare di migliorare il proprio stato di vita o semplicemente per sua volontà, senza essere forzato a farlo. Io mi sono spostata spesso per studio: Germania, Spagna, Sudafrica, e mi domando sempre: perché a me viene concesso questo “privilegio”, mentre ad altre persone no?
È estremamente importante far fronte comune: per far sì che i diritti di tutti possano essere rispettati e che la vita di ogni persona sia vissuta in modo dignitoso. Ricordiamoci che se ora sono le persone migranti a vedere i propri diritti limitati e violati, chi ci garantisce che in futuro la libertà limitata non sia la nostra?».

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