di Gemma Bui – Dopo aver trattato, alcuni mesi fa, la questione della cannabis light all’interno del Disegno di Legge Sicurezza, torniamo ora sul tema parlando del Decreto Sicurezza n. 48/2025 (“Disposizioni Urgenti in Materia di Sicurezza Pubblica, di Tutela del Personale in Servizio, nonché di Vittime dell’Usura e di Ordinamento Penitenziario”), pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 11 Aprile. Un decreto che, di fatto, va a inglobare e fa confluire in sé diverse materie già affrontate dall’originario D.D.L., come antiterrorismo, forze dell’ordine, migranti, donne detenute, libertà di manifestazione. Con l’intento di approfondire in modo più specifico questo ultimo tema, abbiamo raggiunto Alessandro Tracchi, Segretario Generale della Camera del Lavoro di Arezzo.
«Per inquadrare bene la gravità del D.D.L., prima ancora che del Decreto, va innanzitutto analizzato il metodo, che si riflette e successivamente ci svela il merito che in questo momento rappresenta la direzione del Paese. Tutto questo processo nasce da un’intenzione di presentarsi con una buona facciata, anche indipendentemente dalle rievocazioni o dalle facili congiunzioni che si possono fare con il passato, fin dal il primo Decreto, quello “anti-rave”. Se a ciò associamo, sempre in prospettiva generale, quello che io definisco come l’“accordo di deportazione” con l’Albania relativo alla gestione dei migranti, credo la pertinenza sia evidente, anche per quanto riguarda il metodo con cui si fanno le leggi in Italia, esautorando il Parlamento come luogo di discussione dove le diverse forze politiche, indipendentemente da chi governa, potrebbero e dovrebbero trovare una sintesi per l’interesse condiviso del Paese.
La scelta che si fa, invece, è un’altra: si fa un decreto-legge votato dalla maggioranza, e quello deve andare bene per tutti. In tal modo si privano i luoghi deputati dalla stessa Costituzione, svuotandoli di contenuto e potere, e incentrando tutto sulla Premier o su chi, secondo il caso e la convenienza del momento, rappresenta nel miglior e maggior modo la sua idea. In questo senso la partecipazione democratica nel nostro Paese è, già sotto questo primo aspetto, fortemente a rischio. A ciò aggiungo una riflessione sulla chiara presa di posizione del Governo contro la povertà, attraverso la negazione della povertà stessa. Invece di dare risposte politiche, sociali, culturali, e proprio con l’intento di non affrontare il tema, si tende piuttosto a negarne l’esistenza all’origine. La CGIL vede in questo Decreto, da un punto di vista di merito, un’intenzione di non volersi occupare di certe materie, demandando ad altri e semplificando la tematica.
È un Decreto che interviene sul riconoscimento e sull’organizzazione delle forme di disagio, ma un altro dei suoi elementi caratterizzanti è quello di non dare voce ai poveri, ai disperati, agli emarginati; al contrario, continua a emarginarli e a reprimerli. Sono reminiscenze di un metodo militarizzato, per me di chiara matrice fascista. È giusto che ognuno sul punto maturi la propria idea, ma io penso che si possa governare un Paese in modo dittatoriale anche senza carri armati, ma sempre di guerra, pur se in modo meno invasivo ed evidente, si tratta. Va in ogni caso riconosciuto che stiamo parlando di temi di difficile risoluzione. Tuttavia, per noi la risposta non è la repressione, ma l’integrazione, attraverso una strategia che funzioni con ben altri meccanismi. Al contrario, pensiamo che questa escalation stia portando il Paese in un terreno molto pericoloso».
Ed entrando maggiormente nel merito del Decreto quali sono i tratti che lo caratterizzano? «Venendo al merito, con il Decreto si impedisce la manifestazione del disagio, e con essa la libertà sindacale. Perché per l’organizzazione sindacale il Decreto è sbagliato, anche aldilà della mera sanzione? Perché attraverso lo “strumento» del disturbo della quiete pubblica o dell’impedimento del pubblico esercizio, di fatto si vanno a limitare gli spazi dell’azione sindacale. Faccio semplici esempi: se perdo il lavoro, il dritto alla casa, o mi trovo destinato per qualunque motivo all’emarginazione, io sono legittimato ad esprimere il mio disagio, dal momento che devo ricorrere a degli espedienti di sopravvivenza. È un principio minimo, secondo me, quello di dare alle persone la possibilità di riscattarsi dalla propria condizione. Impedendo queste normali azioni, e dandogli la conformazione di contrarietà all’ordine pubblico, si causa una situazione di forte limitazione e impedimento. Nella mia esperienza militante, fin dai tempi in cui ero delegato in fabbrica, ho imparato che qualsiasi tensione può sfociare in un atto istintivo, giustamente dotato di risalto anche mediatico.
Del resto, è anche e proprio per questo motivo che l’azione sindacale ha successo, per via del coinvolgimento della società civile. Quale può essere lo spazio di rivendicazione di questi lavoratori se, ad esempio, io impedisco loro di bloccare una strada? Se a ciò si aggiunge il perseguimento non solo economico-amministrativo, ma anche penale, fino alla previsione della reclusione, la situazione ovviamente si aggrava, arrivando a limitare fortemente l’attività sindacale. Ma in essa il disagio che si crea non serve a nient’altro che a risolvere un disagio che si è verificato prima. In tal modo invece si costituisce una sorta di monito, intimando semplicemente a non manifestare quel disagio.
Il Decreto, inoltre, presenta degli “obbrobri”, relativi anche, ma non soltanto, a una questione di genere: trovo che una previsione come quella relativa alla possibilità di recludere una donna che sia ancora in fase di allattamento rappresenti una privazione di umanità, prima ancora che una misura pedagogica atta alla rieducazione di coloro che insorgono.
Un ulteriore elemento di contraddizione è arrivare a sostenere di voler criptare, attraverso i cellulari, le persone migranti. Nel mondo il terrorismo è purtroppo una realtà, ma nonostante il progresso tecnologico odierno, l’intelligenza artificiale e quant’altro, non mi sembra che si riesca a limitare il fenomeno. Quindi, anche sotto questo punto di vista, vedo una strategia di controllo e di limitazione della libertà personale. Penso più semplicemente che se si includessero queste persone nella società, dando loro un posto di lavoro, sarebbe poi la società stessa a individuare eventuali soggetti pericolosi o non rispondenti a una vera integrazione all’interno dello stato sociale. Credo che il nostro Paese abbia bisogno innanzitutto di integrazione e di evidenziazione delle cause del disagio, frutto principalmente di una povertà in crescente aumento: una povertà che oggi non è più solo di chi non lavora, perché ormai anche chi lavora si sta impoverendo e i numeri sono in crescita. La questione è molto più grande, va aldilà dei decreti, e non potremo mai risolverla senza l’investimento in un sociale attivo.
Altra cosa che riteniamo folle, pensando ai sistemi di lotta interni ai nostri principi costituzionali, è che laddove si scelga la via della nonviolenza si venga perseguiti, e addirittura si veda aumentata la propria pena: penso al caso dello sciopero della fame, una forma di protesta che si ripercuote solo sull’individuo, ma che paradossalmente arriva a diventare un aggravante. Credo che queste cose, ancor prima di una caratterizzazione politica, portino con sé un aspetto di disumanità, che è per me l’elemento prioritario da combattere. In ultima istanza, questo Decreto limita la rappresentazione e le forme di disagio, di qualsiasi tipo esse siano; in tal senso, trovo che siamo davanti a un annullamento degli spazi democratici nel nostro Paese».
E adesso è attuale anche il tema dei Referendum su lavo e cittadinanza… «Pensando anche al Referendum dell’8 e 9 Giugno, reputo che nessun collegamento sia casuale. La posizione espressa dalla CGIL inerisce l’organizzazione del disagio, il riconoscimento delle libertà e un’azione per migliorare queste condizioni. Tutti e cinque i quesiti del Referendum sono pertinenti, partendo dalla richiesta di superamento del Jobs Act, e quindi dalla possibilità di reintegrazione del lavoratore che subisca un licenziamento illegittimo, ancor prima della misura risarcitorio-sanzionatoria per le aziende. Se a maggior ragione quel licenziamento l’ho subito perché ho manifestato le mie idee, che non sono contrarie alla Costituzione, credo che ciò costituisca assolutamente un tema. C’è poi l’aspetto della responsabilità in solido nelle catene degli appalti, e quindi della sicurezza sul lavoro. Anch’esso è pertinente, perché si tratta di porre un limite, responsabilizzando chi è capofila, e inserendo un elemento di vigilanza, specie in un mondo come quello degli appalti, che svaluta il lavoro, spesso eludendo i contratti sottoscritti dai sindacati, che hanno al loro interno determinate attenzioni a salari e diritti.
Le prime che dovrebbero capire ciò sono le imprese, perché chi fa correttamente impresa non spende, bensì investe in sicurezza. In questo Paese invece la competizione si gioca sulla produttività, e non sulla qualità intesa come attenzione a tali istanze. Infine, veniamo al quesito sulla cittadinanza. Dobbiamo capire che col Referendum parliamo di altri, oltre che di noi stessi. Parliamo della possibilità di far integrare chi arriva in Italia, dandogli un lavoro sicuro, dignitoso e regolare, facendolo partecipare alla vita attiva del Paese, senza più ricadere nei meccanismi e nelle pieghe dello sfruttamento. Per me, indirettamente, tutto è legato al Decreto, perché si tratta di un discorso di mission culturali ben precise. Anche nei quesiti referendari si assume il problema della povertà e si prova a dargli una risposta, attraverso un’idea di umanità e integrazione. Parliamo di persone che lavorano nelle nostre aziende, che pagano le tasse in Italia.
È contraddittorio che chi non contribuisce all’avanzamento economico del nostro Paese abbia la cittadinanza, e queste persone invece no. Per questo motivo invito ad andare a votare, nonostante oggi ci sia tanta disillusione in relazione ai valori e ai concetti politici. Io, ispirandomi a una prospettiva progressista, propendo sempre per l’andare avanti, piuttosto che per il guardare indietro. E l’unico modo per farlo è essere fiduciosi e partecipare, perché la democrazia è partecipazione. Col Referendum, inoltre, abbiamo un’opportunità: non deleghiamo un politico, indipendentemente dai partiti e dalla rappresentanza, ma siamo noi stessi a diventare legislatori, in un’espressione di democrazia diretta. Alla fine, i tanti che andranno a votare, siano o meno d’accordo con me, determineranno tramite principi democratici la scelta da adottare e la via da prendere.
Voglio ricordare, in conclusione, che chi ci ha liberati lo ha fatto affinché noi avessimo il diritto di andare a votare. Lo prevede la Costituzione, una carta tanto bella da dover essere applicata, prima ancora che modificata».