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martedì, 10 Settembre 2024

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Migranti in Casentino

di Gemma Bui – Argomento sempre attuale presentato come costante emergenza, questo in sintesi si potrebbe dire parlando dell’accoglienza dei migranti che raggiungono, quando ci riescono, il nostro Paese attraversando soprattutto il Mediterraneo.

Abbiamo contattato Francesco Tinti, Coordinatore del Progetto Isola Che Non C’è per il Casentino e Dipendente della Cooperativa Albero e La Rua, che del Progetto fa parte, per approfondire il quadro della questione sull’accoglienza migratoria in Casentino.

Quali sono, innanzitutto, le realtà casentinesi, e come organizzano nello specifico il lavoro? «C’è da dire, come prima cosa, che esistono tante storie diverse, che ovviamente presuppongono metodologie di lavoro diverse. È innanzitutto necessario distinguere i servizi di prima accoglienza, che sono coordinati direttamente dalla Prefettura di Arezzo attraverso un Bando pubblico. Un’importante realtà operante in questo ambito è Il Progetto Isola Che Non C’è, composto dalle Cooperative Betadue, San Lorenzo e L’Albero e La Rua. Noi come L’Albero e La Rua in questo momento gestiamo sei appartamenti in Casentino per circa trenta persone. Di questi appartamenti, due sono riservati ai migranti ucraini; non perché il Bando faccia differenze, ma semplicemente perché si tratta di due tipi di accoglienza un po’ diversi: le persone provenienti dall’Ucraina in questo momento hanno indubbiamente bisogni differenti dalle altre.

In Casentino c’è poi anche Arca Etrusca – Società Cooperativa Sociale Onlus, che gestisce CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria – n.d.r.). Riguardo la seconda accoglienza, c’è invece il Progetto SAI (Sistema di Accoglienza e Integrazione (ex SIPROIMI, ex SPRAR – n.d.r.), gestito da ARCI Arezzo e dall’Unione dei Comuni del Casentino, che offre tutti quei servizi che precedentemente al Decreto Salvini (D.L. n.113/2018 – LdC n.132/2018, “Disposizioni Urgenti in Materia di Protezione Internazionale e Immigrazione” – n.d.r.) erano abbastanza simili allo SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati – n.d.r.), o comunque lo utilizzavano come riferimento: orientamento sul territorio, corsi di lingua italiana, aiuto al lavoro, e altri. Il Decreto ha depotenziato il tutto; i Governi successivi hanno stanziato qualche risorsa in più, ma in realtà anche nell’ultimo Bando della Prefettura finanziamenti e servizi sono stati ridotti al minimo: l’alloggio, sei ore di corso di italiano alla settimana, che per persone che arrivano senza nessuna conoscenza linguistica sono praticamente quasi nulla, e poco altro.

C’è inoltre Tahomà APS, che offre servizio SAI ai minori, con sedi a Bibbiena, Soci e Partina, e una rete di servizi di diverso genere. È presente infine una struttura anche a Chiusi della Verna. Questo è a grandi linee il quadro generale».

Veniamo alla situazione attuale: quali sono i principali servizi offerti, e, se presenti, anche le maggiori criticità riscontrate? «La nostra decisione, come CAS, di continuare a fare accoglienza non è stata semplice; una volta depotenziate le risorse, le persone rimangono comunque in stato di forte bisogno, già fin dall’arrivo. Rispetto a quanto richiesto dal Bando, ospitare persone che hanno subito spesso ogni tipo di violenza ci impone la necessità di rispondere ai bisogni specifici delle stesse. Così, a fronte, per esempio, di una richiesta generica di “supporto psicologico”, talvolta ci troviamo da un lato a organizzare incontri di gruppo con lo specialista, con grosse difficoltà per farne comprendere la motivazione agli ospiti, dall’altro a cercare risorse per riuscire a seguire adeguatamente ragazzi e ragazze particolarmente fragili.

Va detto che da questo punto di vista c’è una collaborazione molto proficua con le assistenti sociali della Prefettura, con le quali lo scambio di informazioni e il confronto sulle azioni necessarie sono costanti. Stesso discorso vale per il supporto legale: a fronte di un Bando che prevede una semplice azione di “informazione legale”, molto spesso abbiamo la necessità di attivare professionisti in grado di aiutare queste persone quando non hanno gli strumenti, e capita molto spesso, per affrontare da sole la ricostruzione della propria storia e la raccolta di tutti documenti necessari all’incontro con la Commissione Territoriale, che deciderà poi se accogliere o meno la richiesta di asilo.

Per fortuna la collaborazione e il forte legame con gli operatori del progetto SAI di ARCI ci aiutano molto nell’affrontare le varie necessità, quando non sono previste dal Bando della Prefettura. Cerchiamo di mantenere il più possibile il livello di qualità dei servizi come in precedenza al Decreto Salvini e ai Governi successivi, durante i quali poco è cambiato, rispetto a ciò che viene effettivamente chiesto oggi. Noi proviamo semplicemente a dare qualcosa in più. Riguardo le difficoltà: ci sarebbe bisogno, nel momento dell’accoglienza, di una persona proveniente da culture ed esperienze totalmente diverse dalla nostra, di un grande lavoro anche a livello di comunità; cosa che è sempre più difficile fare. Per fortuna, l’esperienza passata in qualche modo ha già aiutato la comunità: in Casentino funziona tutto abbastanza bene, senza situazioni di particolare difficoltà; certo è che noi lavoriamo su numeri esigui, abbiamo piccoli appartamenti e poche persone.

C’è da dire, infine, che nei contesti locali e di prossimità spesso si pone l’esigenza di trovare delle mediazioni in determinate situazioni; e quando usi e costumi diversi si incontrano, è facile che si creino dinamiche di conflitto».

Attualmente sussiste anche una situazione di tensione presso il Comune di Talla, dove l’Amministrazione Comunale vive una “divergenza di opinioni” con la Prefettura. In qualità di operatore nel settore, qual è il tuo parere a riguardo? «Forse anche questa circostanza ha in qualche modo contribuito a stimolare la riflessione sull’argomento; nel Comune è in apertura una struttura piuttosto grande, che va in direzione diversa rispetto alle modalità e agli obiettivi che noi personalmente abbiamo deciso di darci: quelli del “Modello Toscano”, di dimensioni tutto sommato piccole, con all’incirca un appartamento per Comune, dedicato a cinque o sei persone.

Tuttavia, l’apertura di questa struttura dal punto di vista normativo non contrasta con il Bando della Prefettura. Personalmente, in parte comprendo questa tensione, perché non credo che in nessun territorio sia realmente positivo aprire strutture troppo grandi, poiché esse rischiano di diventare facilmente luoghi di degrado, disagio e difficoltà, e comunque non funzionano bene nell’ottica di apertura verso la comunità; questo ce lo dicono la storia e l’esperienza. Queste strutture divengono spesso “meri” dormitori, dove le situazioni di difficoltà, che inevitabilmente esistono per le persone che arrivano, vengono amplificate, rendendo più difficile poi trovare risposte e soluzioni».

In conclusione, quali, a tuo parere, le soluzioni ai problemi che “storicamente” vengono associati ai fenomeni migratori? «Mi piacerebbe che tutti capissero che l’attuale sistema di equilibri mondiali non permette uno stop delle migrazioni, ammesso che questo sia giusto. Chi racconta il contrario mente. La richiesta di asilo è un diritto universalmente riconosciuto; ovviamente anche dal nostro Paese, oltre che da qualsiasi Paese che si ritenga “civile”. Mi piacerebbe che, tenuto conto di questi due punti, si capisse che è meglio organizzare un buon sistema, che sappia accogliere e dare strumenti alle persone per affrontare la realtà (sia a chi arriva che alle comunità che accolgono), piuttosto che spendere le risorse per contrastare un fenomeno che non è arrestabile. Contrastare un fenomeno inarrestabile significa produrre violenza. Gestirlo con intelligenza e rispetto per ogni essere umano significa costruire un mondo migliore. Comunque la si pensi».

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