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sabato, 4 Maggio 2024

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Un viandante canta in sordina

di Marco Roselli – Quando la redazione mi ha ricordato il termine entro cui consegnare l’articolo per il prossimo numero di CASENTINO2000 mi sono subito messo a cercare qualcosa che fosse interessante e possibilmente inedito. Tuttavia, forse con la complicità del grande caldo e della bellezza che i nostri territori sanno ancora esprimere, ho deciso di rimettere i panni dell’eterno viandante, colui che resta ad osservare ciò che la natura, nella sua grandiosa semplicità, esprime praticamente ovunque. E’ quindi nella descrizione del già noto, nella definizione delle sensazioni che esso trasmette in ragione dell’angolo da cui lo osserviamo, che mi accingo a raccontare le tavole pittoriche offerte da agricoltori e giardinieri – dall’incessante brezza che trasporta i milioni di semi delle piante che in questo periodo addensano l’aria, come impercettibile pulviscolo – dal fato. E’ questa una operazione che può essere tentata senza dimenticare se stessi, perché il viandante osserva e traduce in parole espressioni che riguardano il proprio lavoro, il quale, permeato fino al midollo di natura, offre continuamente la possibilità di scorgere l’armonia anche nella decadenza.

Paglia e fieno Metà luglio – inizio agosto sono i periodi della paglia e del fieno, che ancora eroicamente occupano le colline dall’aretino fino all’alto Casentino. La paglia distende un aureo mantello sulle ondulazioni montane e sulle rare pianure delle nostre zone, accendendo i tramonti che in ogni angolo offrono, agli amanti della fotografia o della pittura, numerosi pretesti per approfittare di tanta luce. Non avendo capacità pittoriche o fotografiche chiedo scusa ai lettori per la bassa qualità delle immagini che catturo con un modesto cellulare, tuttavia, la mia pellicola sensibile si trova nel tratto corporeo che dal cervello arriva al cuore; ecco perché diviene irrinunciabile raccontare ciò che vedo e che tanto mi impressiona. Neppure riesco a sfuggire al contagio dei ricordi che si accendono quando mi vengo a trovare nei pressi dei coltivi che frequentavo da ragazzino. La visione del presente rimanda a un lontano passato, a un mondo dove i divertimenti erano fuori dalle mura domestiche o dalle gabbie mentali dei telefonini, una dimensione dove i ragazzi correvano da mattina a sera, per venire richiamati solo quando il sole trapassava il Pratomagno: Vieni in casa!!! Si cena!!! Gridavano i babbi. Il nostro pasto durava quanto i titoli del TG, giusto un frammento, prima di tornar fuori sotto il volteggiare di pipistrelli e falene, alla luce di un lampione non ancora preso a sassate, per “lavorare” la paglia necessaria ad allestire il dispettoso “filo”, dentro pelli di coniglio.

Paglia Ho sempre pensato che l’odore della paglia fosse particolare. È un odore acuto, secco, che somiglia molto a quello della pietra silicea scheggiata. Il carbonio della cellulosa persiste nell’aria tanto da renderla saporita, in grado di saziare oltre l’esigenza primaria del respiro. Toccare la paglia delle presse, ordinata e costretta, è come carezzare una fila di coltelli affilati. Seguendo il sottile ma indistruttibile filo delle assonanze, non posso fare a meno di rammentare l’acciaio dei campi sotto casa Rossi e le calcagna arrossate dal sangue estratto da innumerevoli lame assetate. Tinture in un terreno avido in estati infinite e pure, giocose, come incudini per forgiare pelli dure che venivano immerse, alla sera, nelle acque fredde dell’Archiano. Una corrente dove maniscalchi scalzi lavoravano, allo stesso modo, una tempra di ferro battuto e purpureo, livido, che pativa un piccolo dolore buono, innocuo. La paglia che serviva, dopo il tramonto, per fare il filo alle rade automobili che traversavano i borghi e le pinete. In questo meriggiare pallido e assorto, presso le porte dei ricordi, tanta nostalgia di quel sangue.

Erba e fieno Girovagare per le valli montane, dalla Valtiberina al Casentino salendo fino al “crudo sasso” è una strada lunga e faticosa, ma rende più felici. Quando osservi il foraggio sistemato nelle ‘andane’ lunghe e ordinate che da Montalone ti accompagnano fino a Bibbiena provi una sensazione che non si descrive. I campi sono un mantello verde chiaro disteso sulla schiena delle montagne e creano un mosaico di tonalità con il verde dei boschi, mentre le rotoballe contendono la scena ai massi erratici, i tanti figli partoriti dal sollevamento della madre Verna, la quale li accompagnò, in ere antiche, fino a Santa Maria. Anche il fieno fa parte di un patrimonio immateriale, quello delle immagini archiviate nella memoria, quelle che ti riportano a quando eri ragazzino e ti mandavano, falcetto alla mano, a tagliare l’erba medica. Il profumo dell’erba tagliata è più dolce di quello della paglia, soprattutto al mattino, quando la rugiada richiama gli aromi freschi e buoni delle leguminose che con orgoglio ancora mostrano i colori dei loro fiori, dal viola della medica al lilla della lupinella, dal giallo del ginestrino al candido vestito dei trifogli. Tempo fa scrissi delle prose pubblicate da Edizioni Fruska nel libro Verba Silvarum, una di queste mi pare appropriata a questa stagione, perciò mi permetto di proporne un brano ai lettori.

IL MARE D’ERBA(Brano tratto da “Verba Silvarum” , Edizioni Fruska) “Chi ha detto che in Casentino non c’è il mare? C’è un mare bellissimo, fatto di tutte le tonalità di verde che si possono immaginare. Onde d’orzo che si infrangono contro cavalloni di grano. Dall’alto della collina vedo il vento che spinge i marosi d’Erba medica non ancora fiorita. Il verde del frumento è più cupo. La sua granella è fitta, serrata attorno alla spiga, così assorbe tutta la luce. Quella dell’orzo invece è aristata, rada, e i raggi solari la attraversano creando un tono più dolce. Anche il vento ci passa in mezzo giocando con i riflessi. Chi ha detto che non c’è il mare a Catarsena? Lo scorgo mentre scendo dalla pineta e me ne innamoro. Lo amo tanto da tuffarmi e nuotare in quell’acqua giocosa. Allora mi lascio spingere dalla corrente, verso le insenature di Bagni, fino a Santa Maria. Prendo aria e vado sott’acqua, nelle profondità degli abissi, facendomi largo tra le radici di Trifoglio – meravigliose alghe sotterranee – per poi sbucare a Banzena e respirare di nuovo. Poi un’onda più forte delle altre mi spinge verso la scogliera dei pini di Querceto, dove mi incontro bambino. Abbraccio quel ragazzino e ci tuffiamo in quell’oceano fatto di tanti verdi quanti ne puoi sognare. Nuotiamo facendoci sollevare dai cavalloni di festuca, per poi immergerci dentro. Stanchi, ma con gli occhi pieni di luce, ci buttiamo a riposare in una piccola baia, nei pressi di Giona di Sopra, nel porto dalle case disfatte…”

Orizzonti lontani Se vi capitasse di camminare nei versanti che dal Pratomagno sovrastano Montemignaio, oppure in quelli che si elevano verso Croce ai Mori, sotto il Falterona, può succedervi di entrare in appezzamenti che fino a pochi anni fa ospitavano vivai di alberi di Natale. Nelle lande che superano gli ultimi abitati prima della Consuma o di Secchieta, ci sono piccole valli chiuse e abeti, non solo di foresta. Si tratta di esemplari, un tempo accuditi, che si avviano a colonizzare le rare pianure dei prati permanenti. Abeti del Caucaso dai palchi ortogonali al fusto o abeti del Colorado, nella variante glauca come quello della foto, che sullo sfondo sono delimitati da pioppi bianchi, rappresentano una visione che rimanda a paesaggi esotici, quali quelli delle grandi foreste della Taiga. Eppure, camminandoci in mezzo, ti rendi conto che questi alberi nordici non si sentono estranei, ormai accolti in comunità antiche, come quelle delle faggete o dei boschi misti. Quando li incontro, anche nella calura estiva, proiettano la mente verso la stagione delle feste dicembrine, quelle dei bambini; in fondo, anche se il nostro involucro cambia con l’età, forse cerchiamo solo di restare dei fanciulli sognanti. In Casentino è più facile che altrove, perché basta allontanarci di poco rispetto ai paesi per viaggiare nel tempo.

Colori Si dice che l’estate sia la stagione dove i colori si spengono a causa del grande caldo che dissecca molte essenze, eppure ci sono piante che offrono tonalità particolari. Mi piace proporne due, la Cicoria selvatica (Cichorium intybus) e la ginestra (Cytisus scoparius). La prima occupa velocemente i prati abbandonati grazie al suo sofisticato sistema di dispersione dei semi, i quali, una volta formati, si lasciano cadere a terra, dove le formiche provvedono a trasportarli. Tuttavia questa pianta è molto astuta perché vuole percorrere distanze più vaste di quelle che possono coprire gli insetti, allora, grazie a due piccoli uncini di cui è provvisto l’involucro delle sementi, queste possono attaccarsi al pelo degli animali, andando così a coprire notevoli spazi. Ma è il fiore a dominare ai bordi dei campi, grazie ad un colore lilla inconfondibile. In associazioni numerose offre le tonalità dei pittori impressionisti, con tante punteggiature sullo sfondo di arativi o stoppie, in mezzo ad altre erbe, che gradualmente soccombono alla fornace d’agosto. La Ginestra dei carbonai la troviamo “fuori stagione” perché sarebbe il maggio, il mese della profusione dei suoi fiori, ma quest’anno, a causa della piovosità protrattasi fino alle porte dell’estate troviamo ancora tanti petali gialli. Eppure il colore del sole sta svanendo in luogo di legumi già formati, ancora verde erbaceo, che ben presto scuriranno. Ma non abbiamo niente da temere perché un cromatismo, forse più bello, è portato in testimone ai girasoli.

Con le immagini che si trasformano in sogni e vice versa, la pesantezza del giorno scivola via, sciogliendosi nella luce di un tramonto dove sontuosa vola una Poiana, ma quella dovete immaginarla, perché non si può fotografare chi riesce a librarsi dentro al sole.

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