di Fiorenzo Rossetti – L’equivalente del volume di più di 128 dighe di Ridracoli (4,5 miliardi di metri cubi d’acqua) piovuti sulla Romagna nel maggio più tragico che si possa ricordare. 23 fiumi esondati contemporaneamente e più di 1.000 frane innescate simultaneamente nei territori di collina e montagna. No, nessun corso d’acqua o opera di regimazione idraulica poteva contenere e consentire il deflusso sicuro a mare con una tale quantità di pioggia caduta. Come buttare una brocca colma d’acqua in una tazzina di caffè: l’acqua non ci sta ed esce ad invade tovaglia, tavolo e pavimento.
È stato un fenomeno previsto e compreso nella sua gravità. Solo grazie ad una tempestiva emanazione di allerta rossa (come preludio di fenomeni davvero intensi), una preventiva serie di evacuazioni e una ottimale gestione dei soccorsi, hanno consentito di non piangere più vittime di quante, purtroppo, ce ne sono state. 15 morti, 40mila sfollati, 600 strade tra comunali e provinciali chiuse, blocco di tratti ferroviari e autostradali, oltre 7 miliardi di euro di danni, più di 100 comuni coinvolti, quasi 5mila uomini della protezione civile impegnati giorno e notte ad assistere la popolazione. I
n tutto questo che ruolo ha avuto il cambiamento climatico nell’alluvione che ha colpito la Romagna? Che il riscaldamento globale sia causato dall’uomo (in particolare dalle emissioni di gas climalteranti prodotte soprattutto dal consumo di combustibili fossili) e stia generando il cambiamento climatico, grazie alle evidenze scientifiche sappiamo che non vi sono più dubbi. La climatologia ci avverte del fatto che in un mondo più caldo ci si può aspettare in media più precipitazioni a livello globale, ma in alcune aree localizzate le piogge diminuiranno aggravando siccità e ondate di calore. È questo il caso dell’area di cui fa parte la Romagna.
Si è passati di fatto da lunghi periodi con poche o scarse precipitazioni, che hanno reso il terreno più secco e meno capace di assorbire le piogge violente, a momenti in cui le piogge hanno avuto una intensità e un impatto sul territorio davvero devastante. Rispetto ai fenomeni alluvionali che hanno interessato nel passato questa area, nulla è confrontabile con le dimensioni e conseguenze drammatiche dell’evento del maggio scorso. Parte delle responsabilità sono attribuite alla siccità provocata dal cambiamento climatico, al consumo di suolo e alle politiche abitative che troppo spesso tendono ad avvicinare incoscientemente ogni tipo di costruzione ai nostri fiumi, sottraendone spazi vitali.
Qualcuno ha detto che non dovremmo preoccuparci di capire se accadrà nuovamente un fenomeno così violento e tragico, ma piuttosto di dove accadrà. L’emergenza insomma sarà la normalità. Pertanto, occorre investire ancora in opere di prevenzione strutturale (corretta gestione del territorio naturale, dei corsi d’acqua) e non strutturale (allerte, formazione dei cittadini per mettere in campo attività di autoprotezione). Una delle soluzioni più radicali, ma efficaci (seppur di complessa attuazione) per scongiurare lutti e danni, sarebbe la delocalizzazione delle strutture abitative e insediative, allontanandole dalle aree alluvionali. Quel che mi preoccupa è la dilagante retorica dell’opinione pubblica che vede sul banco degli imputati tutto l’ambientalismo, colpevole, secondo questa, di aver impedito l’escavazione, l’allargamento, l’abbattimento di vegetazione ripariale di corsi d’acqua. Sappiamo invece che la gestione dei sistemi fluviali su questi territori sono una eccellenza nazionale.
Occorre invece avvicinare i cittadini e la politica verso altri modelli di gestione del territorio. Invertire la dilagante antropizzazione di ogni sistema naturale per rendere il territorio resiliente, come pure rendere resilienti le popolazioni di fronte ad eventi sempre più estremi. Resilienza! Questa la parola d’ordine che dobbiamo tenere bene a mente. Resilienza come capacità degli individui di far fronte allo stress e alle avversità uscendone rafforzati, di saper resistere e di riorganizzare positivamente la propria vita e le proprie abitudini a seguito di un evento critico negativo. Forza, flessibilità e adattabilità.
In tal senso, nel corso di questa emergenza, le popolazioni di collina e di montagna coinvolte hanno dimostrato, per formazione, carattere e cultura, di possedere doti di resilienza eccezionali, risolvendo da soli molte situazioni avverse ed emergenziali, cavandosela con i propri mezzi e resistendo, in composto silenzio, a drammatiche situazioni. È un dato di fatto che, anche in questo caso, la montagna abbia avuto meno attenzioni. Ma la resilienza vale anche per la natura. Una natura resiliente è una natura che concorre a mitigare e contrastare gli effetti potenzialmente catastrofici di questi eventi che stiamo imparando a conoscere.
In tal senso, la natura del Parco nazionale delle Foreste Casentinesi deve sempre di più essere utilizzata come esempio virtuoso. Il rispetto e il corretto rapporto con il territorio naturale devono essere inseriti tra le priorità se si vuole contrastare il mutamento climatico e i suoi effetti.
(Rubrica “L’ALTRO PARCO Sguardi oltre il crinale” di Fiorenzo Rossetti)