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sabato, 5 Ottobre 2024

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Come ci si scaldava una volta in Casentino…

di Francesco Benucci – C’era una volta il focolare domestico: con questa espressione, volta al passato, non si intende solo, alla lettera, quella parte del camino in cui si faceva il fuoco per cuocere vivande e per riscaldare gli ambienti soprattutto durante i rigidi inverni di un tempo, ma possiamo recuperarne altresì la dimensione metaforica per cui alla legna e ai crepitii si aggiungeva l’idea di un nucleo familiare unito, raccolto, solidale, proteso alla ricerca di un calore “concreto” e umano, come se il freddo di allora accrescesse al tempo stesso un ardore casalingo ricco di intimità, complicità ed empatia.

Per constatare se c’è del vero in questa affermazione e, parimenti, per scoprire come, privi dei moderni metodi di riscaldamento, ci si difendeva dal gelo nell’Italia prevalentemente rurale di alcuni decenni addietro, proviamo a immergerci in quegli anni ed in quel contesto, con il contributo di Bruno Lamberti, è lui a condurci per mano in questo viaggio nella memoria, tramite i ricordi derivanti dai racconti dei suoi familiari, appartenenti a generazioni di contadini, nella suggestiva cornice dei prati sopra Porciano.

Il nostro percorso a ritroso inizia proprio dal focolare, che, una volta acceso con la sterpaglia e poi alimentato con la legna, diventava la prima difesa contro il freddo: vicino ad esso erano posti dei fornelli a carbone conici con tanto di grigliettina e cerchiettini a fare da copertura, il citato carbone veniva tolto dal focolare, lo mettevano lì e aveva la stessa funzione del gas, grazie a una ventola a mano. Cucinare equivaleva a scaldare e una conseguenza di ciò era il fatto che, a differenza dell’inodore riscaldamento odierno, il calore delle epoche passate aveva un aroma, una fragranza a seconda della pietanza preparata! E d’altronde il caminetto, in più di un’occasione, si rivelava multiuso come dimostra la presenza della “tira”, una sorta di cassetta situata sotto di esso, dove, per riscaldare o asciugare, si adagiavano i panni ma anche le uova per far nascere i pulcini, i pulcini stessi, i conigli, addirittura i bambini, etc.

Poi, quando il termometro calava molto, e accadeva spesso, subentrava una “seconda cucina” che si rivelava un’ancora di salvezza contro i rigori del generale inverno: stiamo parlando della stalla, là dove il fiato del bestiame, dalle mucche alle pecore, creava una provvidenziale cappa di caldo. Certo, in quel luogo, l’effluvio piacevole scaturito dal focolare, lasciava il posto ad un odore che, seppur non nocivo, risultava sgradevole e, per di più, nonostante la presenza di sfiatatoi come “punti di uscita”, finiva con l’attaccarsi addosso. Era il prezzo da pagare di fronte a bufere o altri eventi eccezionali, in occasione dei quali si spostavano nel medesimo ambiente anche i pulcini e i conigli con relative gabbie perché fuori avrebbero rischiato di morire.

Tuttavia, al di là dell’inconveniente “olfattivo”, la stalla, così come la cucina, diventava la sede ideale per riunire le numerose famiglie del tempo, passando così le serate, riscaldandosi a vicenda anche tramite la reciproca presenza, occupando il tempo ora sfogliando il granturco, ora facendo la calza, ora raccontando le novelle ai bambini. E in fondo tutto ciò contribuiva a compattare il nido familiare, a viverlo intensamente, a rinsaldare legami affettivi duraturi.

Insomma, freddo fuori ma caldo, in tutti i sensi, dentro. A dire il vero, in certe stagioni, più che di freddo, si dovrebbe parlare di vero e proprio gelo: negli anni ’50 – ’60, ad esempio, i 10-15 gradi sotto zero, oltre a ghiacciare l’acqua nei bicchieri, spaccavano addirittura le piante, arrivando, come ricorda Bruno, ad aprire in due il tronco di una coppia di ulivi piantati in precedenza. In queste condizioni climatiche, per trovare ristoro, non erano sufficienti luoghi adatti e compagnia abbondante, servivano anche cibi e vestiti ad hoc; per quanto riguarda gli alimenti va detto innanzitutto che era tenuto in cantina, laddove la temperatura si mantiene costante, tutto ciò che aveva necessità di essere conservato: vino, patate, fagioli, ceci, lupini…

Per quanto concerne i cibi più consumati, ovviamente, prevaleva tutto ciò che dava sollievo ai corpi infreddoliti delle famiglie contadine: dalle polente, di granturco e di castagne, ai minestroni, senza dimenticare prodotti derivanti dal maiale come le salsicce e bevande come il vino. A proposito di rocchi e vino, questi costituivano spesso il “menù” di quei giovani che, in alternativa a cucina e stalla, passavano la serata nel seccatoio, un ambiente meno caloroso ma più accogliente. Un ambiente dal quale in più di un’occasione avranno osservato una bella nevicata, magari con animo lieto, dato che, eccetto il risvolto negativo allorché doveva essere portato fuori il bestiame, il fenomeno atmosferico in oggetto aveva anche conseguenze positive: il suo arrivo era una buona notizia per il raccolto perché impediva che il terreno gelasse troppo, rovinandolo, e perché, sciogliendosi, liberava a poco a poco acqua che il terreno stesso assorbiva, alimentando al contempo le sorgenti; insomma, come si diceva, “sotto la neve pane”.

In ogni caso, neve o non neve, nel contesto della campagna di allora, durante la stagione invernale, bisognava vestirsi bene: ecco allora le maglie di lana fatte a mano (la lana assorbe l’umidità, tiene caldo e aiuta a superare anche eventuali polmoniti, bronchiti, etc.), le toppe cucite a volte su altre toppe, le scarpe per chi poteva e, per chi non poteva, gli zoccoli, eventualmente usati pure per schiacciare le castagne, quando si dice l’arte di arrangiarsi! L’arte di arrangiarsi sprigionava tutte le sue potenzialità persino nel momento in cui si trattava di andare a dormire: per combattere il freddo del proprio giaciglio, si usava lo scaldaletto (da alcuni chiamato anche “prete”), una struttura di legno, formata da due coppie di assicelle ricurve unite agli estremi, che si metteva sotto le coperte prima di coricarsi e che, tramite uno scaldino col carbone (detto “veggio”), attaccato ad un gancio, creava, in virtù dell’azione delle braci, un confortante calore; per il resto, ci si adagiava sopra un materasso magari imbottito con foglie di granturco mentre il vestiario prevedeva calze di lana fatte a mano, camicioni e mutandone, il tutto coronato dalla coperta, ossia il coltrone imbottito sempre con la lana.

Certo, in quegli anni, passare da una situazione di relativo conforto come quella appena descritta a situazioni fortemente problematiche, era un attimo: a riprova di ciò Bruno ha raccontato di una notte di bufera in cui suo nonno, dovendo tornare a piedi attraverso la Calla, stroncava le frasche e si metteva i rami degli abeti sotto i piedi, per poter andare, faticosamente, avanti: ebbene, da quella avventura, trasse due insegnamenti che si richiamano a vicenda “dai lastroni non si mangia nulla”, “mentre dalla terra si vive”, come a dire che madre natura può creare qualche disagio ma che, analogamente, se decidiamo di convivere con lei con saggezza, amore e rispetto, essa stessa ci fornisce rimedi e sostentamento, prendendosi cura di noi come una madre.

Ed è forse questo il messaggio più importante che ci trasmettono tali racconti, un messaggio che riprende la nostra riflessione iniziale confermandone e, se possibile, dilatandone la portata, in un’accezione fortemente inclusiva, dove la morsa del freddo, nei tempi passati, stimolava, per contrasto, l’abbraccio caloroso della famiglia, famiglia che, tramite generosi e laboriosi espedienti, che fosse a cercare ristoro di fronte ad un caminetto o a riscaldarsi tra il bestiame della stalla, esaltava il suo essere comunità, i legami, la reciprocità, in un focolare domestico impreziosito da una carica di calda umanità.

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