Le parole nascoste Paride era appena tornato dall’ospedale quando trovò la lettera. La busta sulla scrivania era appoggiata allo schermo del pc e quando la vide – come se presentisse qualcosa di brutto – ebbe una fitta al cuore.
Non la aprì subito.
Si mise a sedere e la guardò per almeno un minuto senza che i suoi pensieri potessero avere un punto di stabilità.
Controllò la posta elettronica quindi Facebook ma lei non era collegata. Nel cellulare non c’erano messaggi né chiamate perse.
Rovistò tra le pratiche come se dovesse assolutamente scovare una pratica urgente. Riprese il mouse e su ilmeteo.it cercò di capire quanto sarebbe stata calda la giornata.
Toscana/Arezzo/Bibbiena.
Sole e piovaschi. 29 gradi. Alta umidità.
Eppure non era una cartella di Equitalia. La carta era bianca da entrambi i lati. Se fosse stato il referto di una biopsia si sarebbe fatto meno problemi ma adesso sentiva il ventre molle.
La verità che cercava di ignorare era che lui già sapeva da chi proveniva la missiva e quali nuove recava.
Mille pensieri affollavano la sua mente di fronte a quel macigno che non poteva evitare.
Le vicissitudini personali, la scelta di non dirle nulla circa la malattia, la difficoltà, sempre più frequente, di non essere in grado di rispondere alla sua passione, adesso lo stavano paralizzando. Incapace di muovere un muscolo era come se avesse gli arti inchiodati alla scrivania.
Le parole nascoste dicevano che lo aveva lasciato.
Caro amore mio. Il destino ha fatto incrociare le nostre vite e abbiamo percorso un tratto di strada insieme. Stare con te è stato bellissimo e non rinnego nulla. Ciò che abbiamo condiviso mi ha dato tanto, mi ha fatto crescere e provare sentimenti che temevo di non vivere più.
Adesso però il mio bene e quello dei miei figli si trova lontano da Bibbiena.
Come sai, lo studio di Firenze aveva richiesto una professionalità offrendo un incarico di rilievo con possibilità di trasferimento e ho accettato.
Credo di aver fatto la scelta giusta anche per la mia condizione familiare.
Non potrò mai dimenticare la nostra storia, tutti i momenti e la passione con cui abbiamo vissuto ogni istante. Ti auguro di trovare la tua pace. Purtroppo non sempre possiamo scegliere ciò che vogliamo e così, quel fato che ci aveva uniti, adesso ci divide. Ti porterò sempre nel mio cuore. Tua.
P.S. Ai colleghi ho detto che ci eravamo già salutati e che volevo solo lasciarti una nota personale di lavoro.
Quel giorno non riuscì a combinare nulla.
Inizialmente restò in studio ma non c’era con la testa. Stava con la faccia sul monitor aprendo e chiudendo pagine internet a caso, soffermandosi sul suo profilo Fecebook, proseguendo oltre e poi da capo.
Entrò in bagno senza vedersi la faccia e poi alla finestra, sopra piazza Tarlati.
Adesso non era più la scenografia di un racconto romantico ma un deserto di arenaria in cui un grande rogo bruciava ogni ricordo d’amore.
Eppure ben sapeva che dimenticare sarebbe stato impossibile. Perché la torre dell’orologio, che con i propri rintocchi aveva scandito le loro emozioni, stava davanti ai suoi occhi lucidi. Perché adesso la vedeva salire le scale della Biblioteca – quando pioveva – ed attraversare di corsa fino al Podestà. Perché vedeva il suo sguardo seducente in mezzo ai capelli bagnati e l’aiutava ad asciugarli. Perché tra le scrivanie, fino al corridoio e nelle scale, sentiva nitidamente il suo profumo. Perché viveva viva nella sua mente e perché, in quel momento, avrebbe voluto morire.
Squillò il cellulare ed ebbe un sussulto. Subito lo afferrò nella speranza che fosse lei. Era un collega che gli rammentava di portare certi documenti quando si sarebbero ritrovati in Valle Santa nel pomeriggio. Lassù avrebbero incontrato i compratori russi per la ristrutturazione di Giona di Sopra.
Poi lo chiamò la moglie per sapere come stava.
I trattamenti della chemio si facevano sentire ma al momento un dolore più vasto lo attraversava da capo a piedi.
Una stanza vuota. Un corpo freddo. Un albero spoglio. Un giorno infinito senza sole. Un corpo dissanguato. Una sorgente asciutta. Queste immagini gli sorgevano nella mente e lui si sentiva un vecchio pupazzo.
La sua struttura era inconsistente ma ebbe almeno la forza di uscire.
Con i recettori della vigilanza pericolosamente sconnessi si mise alla guida vagando senza una meta.
Arrivato alla colonna di Dante fece la rotatoria e tornò indietro. A quella dell’Eurospin si mise nella corsia interna che percorse almeno cinque volte, per poi dirigersi nuovamente verso Poppi e proseguire in direzione di Stia.
Non si accorgeva affatto della strada che finiva sotto le ruote e, senza rendersi conto, si ritrovò oltre Papiano, alla chiesa di Montalto.
Concentrato su nient’altro che non fosse lei, il cuore lo aveva riportato alla ricerca del tempo perduto.
Proprio come quel giorno alcune gocce di pioggia bagnarono le pietre e lui la vide contro quel muro.
Il vestito umido e la sua bocca; gli occhi innamorati, attaccati ai propri.
Appoggiò il corpo alla parete e il suo viso sentì la ruvidità dell’assenza.
Lo baciò ancora e ancora provando a sentire il suo seno nelle spigolature dei sassi. Da quando era partito non aveva mai smesso di piangere. Scivolò a terra dove si sedette con le mani sul viso con i singhiozzi che gli toglievano il respiro. Ma non era un pianto liberatorio. Ogni lacrima che ingoiava portava dentro una mistura venefica di dolore e delusione. Carenza infinita e senso di abbandono. Stava malissimo e il vuoto che provava era ben più tossico del pieno datogli dalla chimica.
Solo Dopo aver veleggiato per un periodo indeterminato di tempo al confine della follia, dove giorno e notte diventano uguali e non si è in grado di distinguere il reale dall’irreale, Paride si ritrovò per la strada della Verna. Ventiquattro ore prima, al termine di un lungo percorso dentro il nulla, con un gesto del tutto casuale, aveva sollevato il telo che copriva il suo vecchio Ciao Piaggio.
L’aveva ovviamente trovato tutto polveroso e si era chiesto se si sarebbe messo in moto.
Non accadde al primo, né al secondo ma al terzo tentativo.
Senza casco filò via verso Tripoli e l’aria sulla faccia lo fece tornare indietro nel tempo quando con la moglie, allora fidanzata, andavano in giro spensierati.
Lei saliva in fondo al sellino e teneva i piedi sui pedali; lui sul montante.
In autunno salivano fino a Camaldoli e in qualche punto gli toccava aiutarsi pedalando o addirittura scendere, come nelle rampe sotto Serravalle.
Quei ricordi gli stavano facendo bene e male ma non c’era modo di evitarli. Impiegò più di mezz’ora a raggiungere le ultime rampe prima della Beccia dove si fermò per proseguire a piedi.
Quando si avviò sull’acciottolato la sua condizione psicologica mutò e passò dall’oblio all’euforia che si manifestò con l’abbozzo di un sorriso.
Questa sensazione era comparsa quasi inspiegabilmente perché di motivi per essere felice ne aveva davvero pochi.
Giunto in cima alla salita si sedette sotto la grande croce di legno che domina il mondo. Davanti a se aveva il santuario che lo chiamava.
Stava per andare quando qualcosa lo bloccò.
Un senso di inadeguatezza lo colse e pensò che era meglio aspettare.
Camminò avanti e indietro sul lastricato come se fosse in cerca di qualcosa. E in effetti era così solo che ancora non lo sapeva.
Quando trovò il coraggio per andare da Francesco era ormai tardi e la chiesa era chiusa.
Allora ridiscese la mulattiera ma quando si trovò all’altezza della grande parete di arenaria si avviò verso di essa tagliando il prato fino alle sue pendici.
Sulle orme di Francesco Era ormai l’imbrunire e forse non era l’ora giusta per inoltrarsi nella faggeta verso “la ghiacciaia”. Questa è una sorta di grotta sotto il piano del bosco dentro la quale la neve può trovare riparo fin quasi all’estate. La cavità consente di entrarci ed è possibile apprezzare un gran freddo anche in agosto. Quel luogo aveva sempre esercitato in lui un certo fascino tanto che anche quel giorno più o meno consapevolmente ne fu attratto.
Forse era il piacere di trovare un germe d’inverno fuori stagione. Una resistenza passiva ma tenace dei bianchi cristalli, come se questi attendessero il loro momento per ritrovarsi.
Il tappeto di foglie secche frusciava sotto la volta ormai scura e quando guardò nel pertugio fu investito da un gelido refolo d’aria.
Un cumulo bianco sul fondo era semisepolto dai residui vegetali che l’aiutavano a non sciogliersi.
Egli fu colmo di gratitudine perché quel dono lo aveva riportato alle antiche sensazioni di bambino, quando la magia non si faceva desiderare e cadeva copiosa da novembre.
La sua coscienza attraversava stati emotivi contrastanti. Il cervello era un caleidoscopio di colori e immagini che però, nel complesso, non gli facevano bene.
Si sentì improvvisamente spossato e pensò di appoggiarsi pochi minuti a terra.
La gran massa delle appendici arboree da cui la vita era fuggita gli procurava un certo tepore tanto che provò piacere ed iniziò a rilassarsi.
“Chiudo gli occhi solo dieci minuti”.
Quando li riaprì era buio pesto.
Schiacciò il pulsante dell’orologio e vide che erano le 04.00.
Provò a guardarsi intorno nel tentativo di scorgere un chiarore che però non c’era.
Ebbe timore di quell’oscurità. Si ricordò dell’accendino. Anche se aveva quasi smesso di fumare lo portava in tasca. La piccola luce lo rincuorò. Ammucchiò qualche ramoscello e un po’ di erba secca, ma il fuoco durava poco perché il materiale si consumava rapidamente, asciugato com’era dalla lunga siccità.
In pochi minuti doveva ricominciare da capo perché non si formava una brace duratura, tuttavia, persisteva un tenue bagliore che offriva una qualche visibilità.
Dalla parte dove riteneva fosse il sentiero vide accendersi due punti che, per un attimo, ingenuamente pensò essere le torce di qualcuno che stava andando a cercarlo.
Intanto gli sterpi avevano fatto il loro lavoro ed una discreta fiamma aveva preso vita.
Quando le piccole sfere scattarono trasversalmente una folta peluria evidenziò la sagoma di un grosso lupo. A quella vista restò paralizzato dal terrore. Una paura atavica lo avvolse, riportando la parte più remota del suo cervello indietro di 10.000 anni in una frazione di secondo.
Nonostante sia risaputo che questi animali non attaccano l’uomo, non era in grado di arginare del tutto l’inquietudine che lo attanagliava.
La preda che è in noi si era svegliata di colpo e cercava una via d’uscita dalle tenebre.
Aggiunse legna ai carboni per vedere meglio e continuò a farlo fino a che una lama cremisi non comparve proprio in direzione della montagna alle sue spalle.
Prevaleva ancora la notte ma il germe dell’alba fu sufficiente per farlo correre verso il paese.
Il giorno era ancora lontano almeno un’ora quando ritrovò lo stradello e benché non avesse corso alcun rischio tirò un sospiro di sollievo nel rivedere le abitazioni del piccolo borgo ai piedi dello sperone francescano.
Riprese il motorino ed anziché tornare a Bibbiena si diresse verso Chiusi ad aspettare che aprisse un bar.
Verso le 7.00 fece colazione e si sentì più tonico e rinfrancato.
Risalì verso il convento stavolta passando dalla Melosa. Era in corso la messa quando entrò in chiesa ma al momento dell’eucarestia se ne uscì fuori non potendo resistere all’immagine del crocifisso.
Il suo periodo incerto stava proseguendo; la sua mente non conosceva fermezza e non c’era luogo in cui avesse vera pace.
Quando i frati uscirono fu avvicinato da un novizio che, in principio, non disse nulla, limitandosi a guardarlo.
Poi, dopo aver scrutato a lungo i suoi occhi, pronunciò una sola frase:
– Spesso ci si imbatte nel proprio destino lungo la strada presa per evitarlo.
Ciò detto gli carezzò i capelli e se ne andò.
Quell’immagine lo salificò quanto quella del lupo e le parole lo seguirono per tutto il resto della giornata.
Sentì l’impulso del movimento e di andare nei luoghi del poverello d’Assisi.
Il letto di ferro, il sasso spicco, la cappella delle stimmate.
Quando si trovò a passare nel punto in cui il santo fu tentato dal diavolo si fermò a guardare lo strapiombo.
Non ne era impressionato e anzi, per un attimo provò attrazione. Vedeva la valle che amava sullo sfondo e il prato che aveva percorso il giorno prima.
Il cielo sopra la sua testa continuava ad essere una lastra pesante da sopportare nonostante in quel momento non ci fosse nemmeno una nuvola.
Un fremito violento scosse ogni sua fibra e il viso si coprì di lacrime. Con un movimento repentino scavalcò la traversa di ferro che separa lo stretto camminamento dal baratro e si trovò ad un passo dalla morte.
A quell’ora non c’era ancora nessuno in giro che potesse afferrarlo per cui restò penzoloni trattenendosi con una mano.
I suoi piedi erano insicuri e scivolavano oltre la gravità; adesso solo l’indice e il medio stringevano il metallo salva vita.
Quando la fine sembrava imminente un colpo di vento uscito da chissà dove pulì i suoi occhi e fu come se si fosse svegliato da un incubo.
Con un balzo fu dall’altra parte del divisorio. Il suo corpo tremava come una foglia ed era un bagno di sudore.
Non sapeva dire, non si capacitava del perché avesse fatto una sciocchezza del genere ma di certo sapeva che non era ancora la sua ora.
Provato e ancora malfermo rimase seduto sui gradini di pietra fino a quando una gran folla di pellegrini non lo costrinse ad alzarsi.
Il tempo era passato e sul far del mezzogiorno pensò che se voleva ancora trattenersi doveva mangiare qualcosa.
Alla Foresteria si rifocillò adeguatamente; mentre consumava il pasto guardò il cellulare, cosa che non aveva fatto da oltre 24 ore, e vide che i suoi figli lo avevano cercato ma nessun altro.
Mandò loro un messaggio dicendo loro che andava tutto bene e che a sera li avrebbe chiamati.
Ormai voleva prendersi il piacere di una passeggiata fino alla Penna prima di rientrare.
(Fine puntata 23)
Marco Roselli, Gli Amanti di Piazza Tarlati, Fruska