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venerdì, 2 Maggio 2025

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L’ultimo coltivatore di tabacco

di Elisa Fioriti – Un mestiere coltivato di generazione in generazione, con dedizione, incarnando un vero stile di vita: è quello che ancora porta avanti Antonio Tizzanini (nella foto), rimasto (salvo aspiranti candidati) il solo coltivatore di tabacco in Casentino, come racconta nell’intervista affiancato dal figlio Enrico, ripercorrendo la storia della famiglia e della sua terra.

Antonio Tizzanini

Coltivare il tabacco: una tradizione vostra, che avuto come capostipite chi? Antonio: «Iniziò nel 1925 mio nonno, che da Castel Focognano venne a lavorare nel podere di Poggiolo, con il tabacco Kentucky, la varietà che dà vita al rinomato sigaro Toscano. Abbiamo fatto tabacco da sigaro fino all’86, oltre al tabacco da sigaretta, il Virginia Bright, classico da Marlboro, che io, dopo mio padre, ho continuato a produrre. Aiutato sempre, con l’età che avanza, da mio figlio Enrico, che, pur avendo intrapreso un altro mestiere, segue l’amministrazione dell’azienda e fa parte dell’associazione aretina di tabacchicoltori A.Pro.Tab.»

Enrico: «A Verona ha sede invece l’associazione che connette su scala nazionale le realtà locali. In Italia, le regioni con vocazione per la produzione di tabacco, concentrata in poche province, sono Veneto, Umbria, Lazio, Campania, Toscana: da noi, la Valtiberina è la più produttiva, qualche impresa in Valdichiana, niente nel pisano, in Casentino… mio padre».

Il proverbio recita: “Tre cose vuole il campo: buon lavoratore, buon seme, buon tempo”. Alla nostra valle cosa mancherebbe? Antonio: «Il Casentino gode d’un clima che ben si adatta alle coltivazioni del tabacco da sigaro e sigaretta, assai diverse nei metodi e nelle tecniche, e con procedimenti specifici per ogni genere di pianta. Avendo origini tropicali, per crescere rigoglioso, il tabacco vuole sole e acqua, che abbiamo a sufficienza, tenuto conto della siccità di cui sta soffrendo il Paese. Anche in passato, se l’acqua scarseggiava, l’irrigazione dei campi di tabacco restava una priorità: dal 1922 il tabacco era di monopolio statale. Semmai, l’arrivo, talvolta anticipato, della brina può causarci complicazioni, visto che le piante sono sensibilissime al freddo: c’è il rischio di gettare l’intero raccolto se non si sta attenti! I miei, ricordo, accendevano nei campi dei focolari, come per le vigne, per rialzare le temperature».

Enrico: «Mentre i semi, quelli oggi li forniscono aziende specializzate che curano l’integrità della varietà di tabacco. Noi acquistiamo direttamente le piantine da trapiantare (operazione che si fa da maggio alla prima decina di giugno), germogliate da semi pillolati messi in un piantinaio a coltura idroponica: si tratta, in pratica, di plateau di polistirolo, piatti con piccole cavità, gli alveoli, che accolgono il seme, adagiati in vasche d’acqua trattata».

Antonio: «Un tempo il semenzaio non era in acqua, ma si faceva in un ambiente protetto, un appezzamento di terra estremamente fertile; mio babbo usava la cenere. Era affascinato lui dallo sviluppo, rapido, delle piante, che in una trentina di giorni attecchiscono al terreno e cominciano a crescere: in una notte, lo si vede dai picchetti, son capaci di alzarsi di 4-5 cm. È stata la passione per il lavoro a spingerlo a non mollare, contro tutti i sacrifici, specie tra il ’68 e il ’69, quando, al calare del prezzo del tabacco, in Casentino la maggioranza dei contadini smetteva, abbandonando i campi per andare in fabbrica. La produzione riprese giusto nel ’71-’72, tolti i limiti imposti dal monopolio statale, con gli agricoltori che potevano permettersi di acquistare i terreni. Nacque allora la cooperativa dei produttori di tabacco, con sede a Bibbiena».

La stessa passione che guida lei, Antonio? «Da qualche anno dico ai miei: basta, è ora di vendere… eppure non riesco a interrompere un ciclo ormai per me spontaneo. Il contatto stretto, intimo con la terra, lavorarla pazientemente, senza guardare all’ora in cui ci si sveglia o ai giorni di festa nel calendario, e ricavarne frutti concreti dà una soddisfazione genuina, che fatica a comprendere chi non lo vive sulla propria pelle. Come mio nonno che pareva conoscere le piante di tabacco una a una, mio padre le accudiva a mo’ di figli, controllando che non si ammalassero, fino alla fase di “zuccatura”, cioè il taglio dei fiori, ricchi di semi, che faceva a mano personalmente, pari pari, per permettere alle piante di maturare bene. Ad agosto, il raccolto, che si protrae lungo settembre, massimo ai primi d’ottobre. Entrambi mi hanno trasmesso, con la passione, il loro sapere: ad esempio, il raccolto prevede un ordine preciso, le foglie più basse si recidono prima, poi tocca alle foglie mediane e alle apicali, tre turni magari a distanza di 10-15 giorni, secondo il livello di maturazione e l’annata».

Enrico: «Foglie raccolte a mano, come veniva svolta ciascuna fase di produzione, con enorme dispiego di manodopera, coinvolte famiglie intere: dall’interramento delle piante (usavano una fune di centinaia di metri marcata ogni 90 cm, distesa alle estremità del campo, per zappare solchi diritti e abbastanza distanti per consentire al contadino di lavorare e alla pianta di sviluppare), alla seccatura… Andando a scuola, vedevo i miei impegnati a stoccare le foglie di tabacco vicino all’essiccatoio a legna; quelle di tabacco da sigaro venivano prima infilate con l’ago e sistemate a cavallo di certe stanghe, stese come i panni allo stendino!»

Antonio: «Le tenevamo ferme alcuni giorni, che ingiallissero un po’, prima di seccarle, a fumo e calore, guai il freddo! e se la legna per il fuoco non era buona… Si faceva la veglia al seccatoio, verificando e regolando la temperatura, guardando da delle finestrelle, con le grate, per timore dei furti, che le foglie si colorassero di quel marrone tipico del tabacco Kentucky. Aprendo il seccatoio, dall’odore, io ce l’ho dentro, riconoscevamo subito se era venuto buono. Tipo, le foglie troppo verdi lasciano al tabacco un sentore acre. Un anno poi in cui l’inverno fu particolarmente rigido, toccò mettere le foglie di tabacco, impossibili da lavorare, che ruvide com’erano si sgretolavano, nella stalla, affinché il calore delle bestie rendesse loro umidità».

Enrico: «Adesso l’azienda di famiglia si è modernizzata e meccanizzata, permettendoci di ridurre il bisogno di manodopera e di portare la produzione a livelli industriali. I tabacchicoltori contrattano antecedentemente con gli acquirenti, così il tabacco che si va a produrre risulta già venduto, a un prezzo stabilito da un mercato oligarchico, dominato da poche compagnie; i nostri buyer principali sono Philip Morris, Deltafina, le multinazionali British American Tobacco e Japan Tobacco. In sostanza, quello che i nonni producevano in un’annata, noi lo otteniamo in un giorno di lavoro».

Antonio: «Be’, c’erano tutt’altre risorse. E finché il tabacco (non i prodotti lavorati) era di monopolio statale, potevamo coltivare solo la quota di piante che ci veniva assegnata, maggiore o minore in base alle dimensioni del terreno, all’abilità degli agricoltori… sperando d’ottenere qualcosina in più con regalie ai comandanti preposti alla determinazione delle quantità di semi da distribuire. La Finanza monitorava la produzione di tabacco con scrupolo maniacale: venivano nei campi a contare e registrare il numero di foglie delle piante, calcolando matematicamente la produzione che ci doveva essere e che il contadino doveva provare, sottoponendo a verifica mazzette di 50 foglie di tabacco l’una, come cartamoneta, appositamente preparate. Multe a chi produceva di più o di meno del previsto! Peccato non considerassero che il mestiere del contadino è affidato al cielo, le stagioni non rendono in modo uguale… In famiglia caso vuole che non abbia mai fumato nessuno, ma in altre i produttori cercavano di nascondere un mazzetto di foglie da fumar per sé, riponendole nei pagliai, non in casa, che i controlli erano rigidi. Nel ’46, pensate, vennero a fare un controllo alla nostra casa di Poggiolo due giovani guardie: esaminando il letto, con un materassino di lana sopra al saccone vegetale, s’insospettirono e glielo fecero aprire a mia madre e mia zia, per poi scoprire che, come di consueto, il saccone era fatto di foglie di granturco!»

Mai interrotta la produzione? Antonio: «Mai, neppure con la guerra. Anzi, durante la Resistenza, visto che non venivano a contare le foglie nei campi, mio babbo riuscì a seccare e rivendere un po’ di tabacco di contrabbando: andava di buio col cavallo in Vallesanta, guadagnando, eluse le tasse del monopolio, due lire in più a dispetto dei tempi che correvano».

Enrico: «Del resto, la macchina per trapiantare le piante, che noi abbiamo introdotto nel 2000, gli essiccatori computerizzati, che manteniamo in funzione tramite anche l’energia rinnovabile autoprodotta dalla nostra pala eolica, le varie tecnologie che stanno rivoluzionando l’attività contadina, per quanto ottimizzino le pratiche quotidiane, non varrebbero lo stesso senza l’esperienza di quanti, come mio padre, son cresciuti lavorando la terra. Per gestire un’azienda agricola tipo la nostra, occorrono sì fondi e capitali, ma la risorsa indispensabile è questo sapere, da salvaguardare e tramandare: ne sarebbe lieto mio padre, se trovasse orecchie che lo ascoltino e braccia pronte! Occorrono giovani, giovani decisi a investire nel loro futuro partendo dal territorio e che raccolgano… il testimone».

(tratto da CASENTINO2000 | n. 286 | Settembre 2017)

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