di Elisa Fioriti – Altroché se ha stoffa da vendere Eleonora Beni, giovanissima stilista e modellista casentinese, le cui creazioni stanno solcando le più importanti passerelle d’Europa. E dopo un’esperienza di lavoro nell’azienda Ferragamo, tempio della moda made in Italy, quali progetti avrà in mente di realizzare? Scopriamolo nell’intervista.
Appena laureata e nel suo curriculum già campeggia il marchio Ferragamo: un’opportunità non da tutti… «Ho conosciuto Stefano Ferragamo a gennaio, in occasione di Pitti Uomo: vi partecipavo anch’io con un paio di mie creazioni ideate per il concorso interno che era stato indetto… nell’imprevedibilità di ciò che poi sarebbe accaduto, sul tema “Cambiamo il maglioncino di Marchionne”. Io proponevo di rivoluzionarlo in due modi: per uno, mi sono ispirata all’arte di Mondrian, realizzando un maglione con un quadro in tessuto Casentino nella parte anteriore; per l’altro, ho voluto omaggiare Marchionne come icona del lavoro, dotando il capo di tasche in jeans, con l’aggiunta di penne, forbici e altri oggetti… una sorta di kit di sopravvivenza! Probabilmente ho saputo distinguermi, tanto che Stefano Ferragamo ha chiesto il mio contatto all’Università, l’Accademia Italiana di Firenze: ancora pochi giorni e mi sarei laureata nella sezione Fashion Design».
Quindi ha iniziato a lavorare in azienda durante i preparativi della discussione della tesi? «Sì, la cui stesura, oltretutto, s’intrecciava ai preparativi della grande sfilata a chiusura dell’anno accademico e del mio percorso universitario! Mi sono laureata il 18 maggio, benché dal secondo giorno del mese fossi stata ufficialmente assegnata all’Ufficio Stile – settore scarpe dell’azienda “Salvatore Ferragamo”».
Sfilata? Di che evento si tratta? «L’evento più prestigioso e di maggior importanza, anche mediatica, organizzato dall’Accademia è la sfilata al termine di ciascuno degli anni previsti dai corsi triennali di laurea: l’occasione per saggiare le competenze acquisite e mostrare al pubblico (e alle aziende) le nostre potenzialità creative e artistiche. Io ho sempre partecipato attivamente: il primo anno mi sono occupata della regia, il secondo sono stata capo-regista. Al terzo anno però desideravo poter lasciare un ricordo di me, distinguermi, dato che a laurearci eravamo una cinquantina di stilisti. Per la sfilata, in programma ad aprile all’Obihall, si dovevano realizzare quattro o cinque outfit completi, abiti e accessori. Osando un po’, ho deciso di puntare sull’alta moda per donna».
Perché solo outfit femminili? «Non che io sia specializzata solo in moda femminile. L’Accademia dà una formazione completa, per target, tipologie di capi e genere: lavoriamo su uomo, donna e bambino, dallo sportswear, al prêt-à-porter, all’high fashion. E l’alta moda, con i suoi abiti eccentrici, tramite cui gli stilisti lanciano input di tendenza, anticipando linee, forme, tessuti per l’anno che verrà, è quella più complessa da realizzare e da comprendere, almeno per i non addetti ai lavori. Specie l’alta moda maschile. Ecco il motivo della decisione: il bisogno d’esprimere appieno la mia creatività».
Aveva un tema la sfilata? «No, eravamo liberi nella scelta di concept, colori e tessuti. Io ho optato per tessuti raffinati e pregiati: taffetà di seta e tulle, difficilissimo da impiegare (e non dico da cucire!) a causa della sua delicatezza e trasparenza.
Per la collezione, dietro la quale, come di consueto, c’è stata una ricerca di spunti e immagini prima della progettazione, mi sono richiamata allo stile del pittore Giovanni Boldini, fra gli interpreti più apprezzati del fascino della Belle Époque, e alle donne, magnetiche, ritratte nei suoi quadri. Parola chiave: luce. Stesso significato racchiuso nel nome della sfilata: Marama, in maori».
Come ha dato luce ai tuoi abiti? «A prescindere dalle nuance di colore, per alcuni l’ho fatto concretamente con micro strisce di piccole luci a led ordinate in Giappone. Le strisce, sottili quanto un capello, erano lunghe circa due metri. Uno dei cinque abiti, con corpetto drappeggiato a mano in tulle e una gonna lunga a strascico di undici strati di tulle, l’ho tutto tempestato di luci, cucendole a mano: in sfilata, all’uscita della modella in passerella, sul far della sera, i led hanno prodotto un effetto luminoso splendido».
Come si accendevano? «Grazie a mio padre, che mi ha aiutato nell’allacciamento in serie, le luci dell’abito si accendevano con un unico interruttore nascosto, cucito dietro la gonna. Fortunatamente le luci erano leggere e per farle funzionare non occorreva una batteria di grandi dimensioni. Anche il celebre stilista Zac Posen ha realizzato un vestito luminoso, ma, rispetto a me, ha utilizzato la fibra ottica e la sua modella stava ferma, non sfilava!».
Gli altri abiti com’erano? «Un vestito corto anch’esso luminoso, davanti drappeggiato e con dietro degli sbuffi simili ad ali di fata. Un altro, in taffetà e tulle, aveva le luci nelle pieghettature. E poi ho creato un abito scultura, combinando un bustino drappeggiato a mano in tulle con una voluminosa gonna in taffetà, retta da una crinolina di cerchi in ferro e tulle, con sopra, tutt’intorno a ventaglio, un insieme di cerchi in lega rivestiti di taffetà pieghettato».
In che circostanze, invece, ha ideato outfit maschili? «Una in particolare? Al secondo anno d’Accademia, partecipando al concorso Techtextil (aperto a chiunque, non esclusivamente agli studenti di scuole di moda), che dava accesso alla fiera internazionale dedicata alla ricerca di tendenze sul tessuto. La fiera viene organizzata ogni anno in una diversa città del mondo: l’anno scorso Tokio, l’anno in cui ho partecipato io Francoforte. Ricordo che per noi era prevista la consegna di un book prima delle vacanze natalizie (in pieno periodo d’esami), con figurini uomo/donna e disegni tecnici, cioè i bozzetti geometrici dei capi. Quasi non ci credevo quando mi è arrivata la notizia che avevo vinto il concorso: da Francia, Portogallo, Germania e Italia prendevano, infatti, tre stilisti emergenti a rappresentare le singole nazioni; io ero una degli stilisti italiani selezionati! Gli altri due per l’Italia venuti con me in Germania erano una giovane rumena e un’altra di origini giapponese. Così ho realizzato, seguendo personalmente tutte le fasi fino alla cucitura, tre outfit maschili e uno femminile da esibire al fashion show allestito durante la fiera. Mi hanno sponsorizzata, fornendomi i tessuti, Kloppman e Tessiltoschi, aziende che fabbricano per lo più denim e neoprene, un tessuto tecnico, ideale per giubbotti e abiti strutturati».
Come è stata l’esperienza in Germania? «La fiera di Francoforte durava una settimana. Per due volte al giorno si svolgeva un fashion show per attirare gli spettatori a visitare l’esposizione di macchinari; i modelli che indossavano gli abiti erano anche ballerini: sfilavano e danzavano. Inoltre era stato indetto un concorso interno: si poteva votare l’outfit preferito con gli iPad messi a disposizione dei visitatori o dall’estero, esprimendo un’unica preferenza. Io ho vinto con un outfit da uomo per la categoria “Decomposable active”».
Cioè? «Essendo una mostra sulle nuove tendenze, ho voluto ideare capi originali, dinamici, personalizzabili secondo condizioni e occasioni d’uso. I giubbotti, ad esempio, e alcuni pantaloni erano scomponibili, con maniche, gambe e altri componenti da aggiungere o staccare; reversibili i capi da donna. Dal punto di vista tecnico, ho fatto un patchwork coordinato, tagliando e riassemblando con preciso rigore i tessuti, per evitare che gli abiti avessero un aspetto caotico, disordinato. Ne risultava, insomma, una combinazione di moda sportswear e prêt-à-porter, capi pratici e portabili, senza rinunciare allo stile. E credo che sia stata questa loro speciale adattabilità a riscuotere successo».
Che prospettive di lavoro le si sono aperte dopo Francoforte? «Tornata in Italia, mi è stato chiesto di partecipare alla fiera “Maredamare” di Firenze, il salone italiano dedicato al beachwear, accessori e underwear, con la presenza delle aziende italiane ed estere più qualificate. Non mi ero mai occupata di questo settore e, rispetto alle mie compagne di università, già alle prese con i loro progetti, ero indietro nei tempi, ma non ho rinunciato. E anziché ordinare i tessuti per i costumi come gli altri avevano fatto, ho pensato di utilizzare i campioni di stoffa che gli sponsor mettevano a disposizione degli stilisti per scegliere quali ordinare, creando una collezione fantasiosa e colorata, pur coerente, che comprendeva anche un vestito copricostume, due felpe, cappelli e borse».
Adesso di cosa si vorrebbe occupare? «Vorrei tornare all’abbigliamento o agli accessori moda e dare libero sfogo alla mia creatività, tenuta un po’ a freno negli ultimi mesi, in cui, disegnando scarpe per Ferragamo, ho dovuto attenermi scrupolosamente alle regole di progettazione e agli alti standard del marchio. Lavorare per Ferragamo è stato elettrizzante: è una realtà competitiva, che stimola a dare il meglio di sé, a migliorare; mi piacerebbe sperimentare un contesto simile, per continuare a crescere e fare esperienza».
In Italia o fuori? «So che se mi spostassi all’estero, in Europa e ancor più in America, con le mie qualifiche, dal diploma in “Moda e costume teatrale” all’Istituto d’arte di Arezzo “Piero della Francesca” alla doppia laurea conseguita all’Accademia Italiana di Firenze (una riconosciuta dal Miur e una a validità internazionale rilasciata dalla Nottingham Trent University), riuscirei rapidamente a costruirmi una carriera. Non lo escludo, ma vorrei prima tentare di realizzarmi qua in Italia, nel mio Paese, che rappresenta l’eccellenza nel mondo della moda, per ciò che riguarda l’artigianalità, il gusto, lo stile. Contemporaneamente, comunque, intendo incamminarmi su un’altra strada: sto lavorando al mio brand, il mio marchio personale… Devo definirne il concept. Un amico, graphic designer, mi aiuterà a realizzare il nuovo sito web. Partirò da sola, creando e cucendo io stessa gli abiti: ho il vantaggio di essere una stilista e una modellista, tra le figure più ricercate e pagate dalle aziende perché sono loro a dar vita agli abiti disegnati. La sfilata dell’ultimo anno di Accademia è stata davvero significativa per me: si è chiuso un capitolo essenziale della mia vita e spero che segni un nuovo inizio.
Perciò credo che il mio brand si chiamerà così: “Marama by Eleonora Beni”».
(tratto da CASENTINO2000, nr. 301, dicembre 2018)