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martedì, 30 Aprile 2024

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Quando si cacciava… per mangiare

di Lara Vannini – Oggi la Caccia si scontra quotidianamente con la voce dei tanti ambientalisti che vorrebbero il suo divieto, convinti del fatto che le risorse alimentari nella nostra società del benessere siano più che sufficienti senza ricorrere a pratiche ritenute inutili, ecologicamente dannose e anche inquinanti se pensiamo alle cartucce riversate ogni anno nei nostri boschi.

In passato però la Caccia, come tante altre attività, erano pratiche necessarie per integrare un’alimentazione poco sostanziosa e a volte poter avere un extra-guadagno, vendendo la selvaggina al mercato. Gli animali non venivano solo cacciati con il fucile, ma erano utilizzate comunemente anche le trappole per specie di piccola taglia. Una società quella contadina che aveva stabilito un proprio equilibrio tra l’uomo e l’ambiente fatto di relazioni sane volte a utilizzare le risorse della natura senza distruggerle.

Nonno Angiolo, grazie ai ricordi della figlia Flora, e Lorenzo Bondi sono due casentinesi doc che grazie alla ricchezza dei propri ricordi ci hanno permesso di ricostruire le giornate tipiche dei cacciatori di una volta e scoprire qualche curiosa abitudine e deliziose ricette di selvaggina.

Cacciatori per necessità Se noi potessimo passeggiare per un paesino montano di circa un secolo fa, ci accorgeremmo che quasi tutti gli uomini erano cacciatori perché non era un’attività sportiva così come siamo abituati a pensarla oggi, ma era un modo concreto di procurarsi cibo per sfamare la famiglia. Battute di caccia, trappole per animali, ogni pensata era buona per portare qualcosa da cucinare sulla tavola. Come ci racconta Lorenzo, chi andava a caccia non dedicava l’intera giornata a questa attività, ma eventualmente parte della mattinata quando tra un’incombenza e l’altra era possibile assentarsi qualche ora da casa.

Generalmente i boschi perlustrati erano nelle vicinanze del paese da cui partiva il cacciatore, le gambe restavano sempre il miglior mezzo di spostamento e poi “le selve” a differenza di oggi erano luoghi abitati, con sentieri ben battuti e riconoscibili, quella terra di mezzo che separava un paese da quello confinante. Anche per questo i pericoli per chi frequentava il bosco erano enormemente superiori ad oggi e non di rado succedeva qualche incidente dovuto a proiettili vaganti.

Generalmente il contadino partiva in perlustrazione da solo, a volte, anche a seconda della taglia dell’animale, in gruppo e, visti alla fine i risultati, gli animali cacciati venivano spartiti tra tutti i partecipanti. Come già detto, andare a caccia poteva essere molto pericoloso e non di rado avvenivano degli incidenti che potevano arrecare danni anche permanenti al malcapitato come la perdita della vista o delle dita delle mani.

Del resto il cacciatore era una persona comune che aveva ottenuto il porto d’armi (e a volte nemmeno quello!) per andare a caccia e questo gli permetteva di girare armato per i boschi in tutta serenità in cerca della preda. A volte quando il cacciatore rientrava, se aveva da sbrigare qualche incombenza, si portava dietro il fucile e solo in serata poi si preoccupava di riportarlo nella propria abitazione.

Dai ricordi della signora Flora, apprendiamo che andava a caccia anche qualche religioso francescano come Padre Valentino o Padre Ermenegildo parroco della chiesa di San Lorenzo a Dama. Se era tempo di castagnatura, qualcuno aveva il compito di preparare per la battuta di caccia una bella padellata di castagne arrostite dette “brice”, che poi sarebbero state mangiate nel bosco, durante il tragitto.

Come già detto la caccia era un’attività che si svolgeva nel corso della giornata, anche poche ore a seconda delle varie incombenze. Ovviamente i contadini andavano con gli abiti che avevano perché chiaramente non esisteva una “divisa” come siamo abituati a vedere oggi. Se era piovuto o faceva già freddo, venivano indossati dei pantaloni di tela pesante di velluto o fustagno, un paio di scarponi che venivano calzati anche nella quotidianità e qualche maglione di lana rigorosamente fatti a mano. A volte avevano anche un giaccone provvisto di tasche e alloggi dove sistemare le prede.

Dalla lepre al tasso Quali erano gli animali che maggiormente venivano cacciati? Sicuramente i più comuni erano la lepre, il cinghiale, la cui battuta veniva fatta in gruppo, volatili come le beccacce, i merli, le ghiandaie, le starne e in momenti di necessità anche il tasso che purtroppo veniva intrappolato con un procedimento tutt’altro che scontato nella propria tana e sacrificato per il sostentamento di tante bocche. La cacciagione andava così a implementare le altre attività su cui si basava l’alimentazione del contadino: l’allevamento degli animali da cortile, l’appezzamento di terra più o meno grande dove poter fare delle piccole coltivazioni domestiche e a volte il possesso di una piccola vigna o un uliveto.

Ricette della tradizione Come conveniva alla più tradizionale delle famiglie rurali, a casa le donne erano preposte alla lavorazione della cacciagione, sia da un punto di vista del trattamento della carne sia alla preparazione della ricetta stessa. È importante ricordare che più di un secolo fa non esistevano frigoriferi per la conservazione dei cibi e quindi era assolutamente necessario cucinare quanto prima i prodotti freschi e nel caso fare delle pietanze che si basassero su conservanti naturali come la neve ghiacciata, gli aromi, il sale ma anche il fumo usato soprattutto per il pesce e gli insaccati. La carne doveva prima essere “frollata” ovvero resa morbida e succosa privandola delle interiora, poi doveva essere tolto il famoso “sapore di selvatico”, attraverso il processo detto della marinatura. Le miscele utilizzate contenevano olio di oliva, aromi, spezie e aceto. Questo poteva richiedere anche più di 24 ore.

Tra le ricette della tradizione toscana come suggerisce Flora, spicca senza dubbio la “lepre in Salmì” il cui obiettivo era proprio quello di contrastare il tipico sapore della selvaggina. In questa ricetta la lepre subiva una marinatura di almeno 48 ore, prima di essere cotta. In seguito la carne era rosolata in una casseruola e nella stessa venivano aromatizzate anche le frattaglie per un tempo molto lungo, anche un paio d’ore. Salmì deriva da “Salmigondis” significa proprio pasticcio, insieme di tante cose diverse, nel nostro caso la mistura degli aromi.

E così in un tempo in cui la necessità diventava virtù, la caccia è stata un’attività che ha permesso a innumerevoli famiglie di sopportare una vita di difficoltà e ristrettezze tanto che come suggerisce Lorenzo è stato coniato il detto «Chi va a caccia e niente piglia, sta male lui e la famiglia»! 

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