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lunedì, 29 Aprile 2024

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Ermeneutica del Pensiero Pericoloso

di Gemma Bui – “Non ci sono pensieri pericolosi; il pensare stesso è pericoloso” recita l’incipit di “Vita Activa”, saggio di Hannah Arendt del 1958. A distanza di 65 anni sicuramente molte cose sono cambiate, ma il concetto di fondo è rimasto lo stesso, pur se arricchito da quelli che potremmo definire “anticorrettivi” odierni, effetti collaterali delle mutate dinamiche politico-mediatico-sociali dell’umanità di oggi.

Pensare è pericoloso, è vero tuttora; ma il non pensare, o quantomeno il non pensare consapevolmente, non lo è forse di più? È la riflessione che vogliamo porre in questo articolo: come e perché alcuni settori e fenomeni strutturali della società moderna riescono ancora oggi a favorire e perpetrare retoriche d’odio, fobia e intolleranza?

Nel cercare di rispondere, porteremo anche alcuni esempi di tali manifestazioni di pensiero, pronunciate da leader politici, mediatici e religiosi del passato e del presente. Frasi che potremmo sentir dire indistintamente nei bar come nei salotti televisivi, nelle campagne elettorali come nei vari contesti politico-istituzionali. E forse ci accorgeremo di quanto poco sia cambiato; di come i corsi e i ricorsi dell’oscurantismo spesso corrispondano e plagino pedissequamente le risacche della storia.

Il ruolo della politica «La ricettività delle grandi masse è molto limitata, la loro intelligenza modesta, ma il loro potere di dimenticare enorme e, in conseguenza di queste evidenze, tutta la propaganda che funziona deve essere limitata a pochissimi punti e deve ripetere i messaggi finché l’ultimo membro del pubblico comprenda ciò che volete che egli capisca dai vostri slogan» (A.Hitler). Da circa un decennio (con un boom registrato dalla crisi finanziaria del 2008 in poi) l’Occidente vive un’era di populismo moderno, con movimenti demagogici che, facendo leva su istinti e frustrazioni collettive, vanno a soggiogare soprattutto le classi popolari e la nuova piccola e media “borghesia”.

Tali movimenti, che hanno l’unico (benché potentissimo) pregio di costituire dei “collanti” per le masse, vertenti essenzialmente sull’irrazionalità della rabbia sociale e autoalimentati dalla paura della diversità (benché non sia dato sapere su che cosa, effettivamente, tale diversità di fatto si basi), si pongono in contrapposizione con un pensiero intellettuale e critico che oggi, purtroppo, peccando sempre più di individualismo e forse anche di un certo solipsismo, finisce spesso col soccombere a essi. Il circolo vizioso che si innesca è difficile da spezzare, dal momento che attualmente la priorità dei leader politici sembra essere unicamente quella del consenso, con una solo residuale attenzione alla responsabilità del ruolo pubblico e all’influenza che, in generale, il potere agisce sulle persone.

Un ruolo chiave nella psicologia delle masse è indubbiamente giocato dalla paura, quella che una delle più importanti giornaliste italiane, Oriana Fallaci, nel – pur controverso – libro “La Rabbia e l’Orgoglio” (2001) definisce come “una malattia mortale […] che nutrita di opportunismo, conformismo, voltagabbanismo, carrierismo e naturalmente di vigliaccheria, miete più vittime del cancro. Una malattia che al contrario del cancro è contagiosa e colpisce chiunque si trovi sulla sua strada. Buoni e cattivi, stupidi e intelligenti, farabutti e galantuomini”.

Il ruolo dell’informazione «Le idee non hanno bisogno di armi, se sono in grado di convincere le grandi masse» (F.Castro). In buona parte, lo sviluppo e la diffusione delle suddette ideologie, virali al pari delle più recrudescenti infezioni pandemiche, sono oggi favoriti da un assetto mediatico affetto anch’esso da specifici mali: la strumentalità propagandistica, l’infodemia (la “circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza”, n.d.r.) e la “priorità del clickbait”. Meno informazione, più mercato: un paradigma che sicuramente ha provocato forti distorsioni e conseguenti sconvolgimenti nel settore dei mass media che, storicamente considerati come “quarto potere”, vengono oggi declassati – ottimisticamente? – a “(pen)ultimo potere”.

La verità è importante, o almeno dovrebbe esserlo. E lo stesso, in ambito informativo, vale per il linguaggio. Sostiene Vera Gheno, linguista, saggista e traduttrice: “il primo potere delle parole è quello di garantire la tenuta della democrazia, perché è indispensabile che all’interno di un contesto democratico le persone capiscano quello che viene loro detto, che conoscano la lingua dello Stato anche per rifiutarla, per dire: “Così le cose non mi vanno bene”. Per essere cittadini attivi di una democrazia c’è bisogno di avere una salda competenza delle parole. Non a caso nei totalitarismi si tenta di abbassare il livello di competenza linguistica media, perché fa molto più comodo un popolo che non può ribellarsi a ciò che viene detto”.

Il ruolo dei social network «Non lo so. Cosa dovrei saperne? Quello che so è quello che trovo su internet» (D.Trump). Da un lato i social hanno avuto il pregio di democratizzare la libertà di espressione: ai giorni nostri praticamente chiunque ha la possibilità di fruire di qualsiasi informazione e di offrire la propria opinione a un numero potenzialmente elevatissimo di altri utenti a livello globale; dall’altro lato però, così facendo, tale libertà di espressione viene in qualche modo deresponsabilizzata: i confini dell’identità digitale sono tutt’oggi confusi e labili, e il web un luogo ancora privo di controlli adeguati da un punto di vista legislativo e regolamentare. Il contraddittorio nel dibattito online è viziato (per non dire inesistente) e ancora fortemente compromesso dal fattore/scudo della “realtà parallela”.

Ciò porta al consolidamento di un’opinione pubblica basata su notizie spesso non verificate, falsata da propagande e intolleranze di sorta, e inevitabilmente destinata ad abbassare i propri standard qualitativi. Il criterio della cosiddetta netiquette (“le norme di comportamento che regolano l’accesso dei singoli utenti alla rete”, n.d.r.) non dovrebbe essere quindi dettato tanto dall’ideologia personale, quanto piuttosto dall’attenzione a una potenziale lesione altrui: la convivenza delle proprie libertà e sensibilità con quelle degli altri dovrebbe costituire la priorità, ispirando gli intenti e, di conseguenza, i comportamenti. E se è vero che ogni sensibilità è soggettiva, una libertà che possa definirsi tale non dovrebbe invece esserlo mai. Non dovremmo appellarci al qualunquismo, ormai dilagante nei contesti di confronto pubblico su tematiche – spesso, minimamente – complesse, del “non si può più dire niente”, quanto piuttosto alla spazialità dell’ “imparare a saper dire tutto, rispettando idee, visioni, appartenenze e identità molteplici”.

Saper scindere il concetto di diversità, perlopiù assoluto, in cui individuare uno standard ideale risulta difficile, da quello di differenza, cioè distinguo basato su aspetti minimi, spesso non essenziali e comunque tutti, sempre e comunque validi; e capire che, mentre il primo viene strumentalizzato all’interno dei rapporti di potere, solo il secondo è davvero applicabile alle relazioni umane nell’ottica di una società civile ed equa, giusta e non giustizialista.

Il ruolo delle religioni (Il Silenzio di Papa Pio XII in risposta alla lettera del gesuita tedesco antinazista Lothar Köning che denunciava l’esistenza di campi di concentramento in Germania e Ucraina; solo nel 1953, 11 anni dopo, il Papa parlerà di “massacro razziale”, mai di “olocausto” o “sterminio”, n.d.r.). Attualmente, l’84% della popolazione mondiale si definisce appartenente a una confessione. Tale influenza ovviamente cambia se mettiamo a confronto, ad esempio, le teocrazie mediorientali (e l’odio religioso che ne scaturisce, quando credo diversi entrano in contrapposizione) con il ruolo politico-sociale delle confessioni occidentali (ne è esempio perfetto il Vaticano, che ormai da decenni si atteggia più da Stato che da Chiesa). Per quanto nella percezione comune l’influenza dei culti sulla consapevolezza collettiva possa sembrare irrilevante, e i leader religiosi appaiano spesso poco carismatici quando non “meramente notarili”, il progresso culturale è lungi dall’essere avanzato, quantomeno non a un livello auspicabile a 2023 anni dalla morte di Cristo.

L’Italia, sul punto, è un archetipo negativo: l’assenza di matrimoni egualitari, il 64.6% di medici obiettori (dato al 2020, n.d.r.) e la mancanza di una legge sul fine vita sono solo alcuni esempi, tanto eccellenti quanto infimi, a seconda del punto di vista da cui si voglia guardarli.

E noi, cosa possiamo fare? Non molto, forse. Tentare di impegnarci nel coltivare e fruire di un’informazione quanto più possibile libera, disinteressata e non propagandistica, pur nella consapevolezza che la vera verità potrebbe anche non esistere, o non essere concretamente raggiungibile. Aprirci alla possibilità che anche noi, in fondo, potremmo comunque non avere ragione. Fermarci a pensare prima ancora di constatare. Ne sappiamo davvero abbastanza? Forse la nostra opinione non è sempre rilevante e necessaria, e forse il potenziale nocumento di “nessuna opinione” è minore rispetto a quello di un’opinione scorretta e/o incompleta. E ancora, informarci, leggere, studiare, osservare, analizzare e interpretare fino ad (auspicabilmente) capire ogni dinamica, da quella più fintamente complessa a quella apparentemente più banale.

Affidarci alla letteratura, al cinema, all’attivismo, all’arte, ricercando sempre in essi quel tratto comune che riesce a legare realtà in apparenza anche lontanissime tra loro; nel tempo, nel soggetto, mai nel concetto: pensiamo, solo per citarne alcuni, ai film di Luis Buñuel e a serie televisive come Mr. Robot o Black Mirror, alla saggistica di Albert Camus e alla romanzistica di Michela Murgia, a Giovanna d’Arco e Aleksej Navalny, a Pier Paolo Pasolini e Julian Assange, a Charlie Chaplin e Fabrizio De André. Esempi di libero pensiero – pur imperfetti, poiché umani – a cui forse, un giorno o l’altro, riusciremo a riconoscere la giusta ragione.

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