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sabato, 24 Maggio 2025
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2023: anno nero per sanità e viabilità

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di Francesco Meola – L’anno appena trascorso ha visto ancora una volta il trascinarsi di alcune problematiche di un certo rilievo. Noi di CASENTINO2000 abbiamo provato a riguardare quanto abbiamo proposto in questo 2023 e ci siamo resi conto che spesso abbiamo dovuto occuparci di argomenti purtroppo già molto conosciuti. Così anche questa sintesi ci porterà a concentrarci soprattutto sugli atavici problemi dell’ospedale, sull’emergenza-urgenza, gli interminabili lavori della SR71 e il perdurante stato di abbandono dell’area ex Sacci.

Queste, a nostro avviso, alcune delle priorità che si spera che possano far registrare dei passi in avanti già nel corso di questo nuovo anno, anche se la strada appare tutt’altro che in discesa. Ma procediamo con ordine.

Per quanto concerne il nosocomio locale la problematica principale è rappresentata dalla cronica mancanza di personale. Una situazione, in verità, comune a quasi tutti gli ospedali della Penisola ma che, in una zona abitata da circa 35.000 persone, rappresenta un handicap non da poco. Nello specifico l’ospedale del Casentino soffre la mancanza di almeno un medico per l’area di medicina interna, mentre al pronto soccorso ne mancano addirittura cinque. Al momento l’assistenza è fronteggiata con l’attività di altri professionisti provenienti da diverse unità operative e con il personale medico di emergenza in servizio in automedica ma è evidente non si possa resistere ancora per molto. Della questione si sono pertanto interessati diversi sindaci del comprensorio ed in particolar modo quello di Bibbiena, Filippo Vagnoli, il quale, in qualità di presidente della Conferenza zonale socio-sanitaria del Casentino, nei mesi scorsi mesi ha più volte sottolineato l’esigenza di garantire alla struttura l’arrivo di forze nuove denunciando, a tal proposito, l’assordante silenzio delle istituzioni regionali.

È bene ricordare che il depotenziamento dell’ospedale del Casentino va avanti oramai dal lontano 2016 e ha visto progressivamente chiudere alcuni reparti nevralgici, tra cui quello della chirurgia di urgenza e il Punto Nascita. Scelta, quest’ultima, che ha costretto sovente alcune donne a partorire in ambulanza, come avvenuto lo scorso novembre ad una gestante di Badia Prataglia. Ecco perché è giunta l’ora di un radicale cambio di marcia e la speranza è che anche le pressioni della cittadinanza e delle associazioni possano giocare un ruolo determinante nel restituire al Casentino un’assistenza sanitaria adeguata.

Altra questione che ha tenuto alta l’attenzione nell’anno appena trascorso, è quella dell’emergenza urgenza. Una problematica che, almeno nelle intenzioni, sembrerebbe dover trovare una rapida risoluzione, ma bisognerà vedere se alle rassicurazioni della Asl, seguiranno fatti concreti. Al momento è previsto il mantenimento dell’auto medica, delle due ambulanze Blsd con aiuto del volontariato e dell’ambulanza infermierizzata che passa da 12 a 24 ore. Un progetto che, tutto sommato, rappresenterebbe quanto meno un buon punto da cui ripartire.

Ancora in alto mare, invece, la situazione legata ai lavori della SR71. Terminati quelli del tratto compreso tra Calbenzano e Santa Mama nonché l’asfaltatura nella zona di Subbiano, stentano invece a decollare quelli della zona compresa tra Bibbiena e Corsalone. Attualmente sono ancora in corso le opere di realizzazione della rotatoria del Pollino dalla quale dovrebbe partire una nuova diramazione in direzione Arezzo con transito parziale all’interno dell’ex Sacci. Un’ipotesi che però rallenta i lavori, dal momento che gli scavi potrebbero avere inizio soltanto al termine delle bonifiche dell’area in questione.

E qui veniamo all’ultima ma non meno scottante problematica che ha caratterizzato anche lo scorso 2023 e che dimostra come dalle sue sorti dipendano indirettamente anche quelle della suddetta arteria stradale. L’area, requisita alcuni anni fa per la presenza di rifiuti tossici, era stata dissequestrata nel dicembre 2022 ma proprio quando tutto lasciava presagire la definitiva uscita del manufatto dallo stato di abbandono, nuovi campionamenti avvenuti lo scorso aprile hanno imposto un ulteriore stop al suo recupero.

Secondo gli organi prepositi, infatti, al momento della restituzione dell’area al proprietario Marino Franceschi, all’interno della stessa continuava a sussistere la presenza di materiale non conforme. Tesi, questa, prontamente smentita dal noto imprenditore che, attraverso un’apposita nota inviata alla stampa, faceva sapere che i rilievi in questione erano stati condotti su cumuli di rifiuti già analizzati, tra l’altro senza che né lui, né il Comune e né l’Asl fossero presenti.

Tuttavia, a seguito di questo sopralluogo, seguiva un nuovo provvedimento del Comune di Bibbiena che di fatto blocca ancora oggi lo sviluppo dell’area nonostante il sindaco, Filippo Vagnoli, ha tenuto a specificare che l’ente da lui rappresentato si è limitato a prendere atto delle informative ricevute da Arpat e Asl.

Anzi, il primo cittadino ha fatto sapere a più riprese di essere disponibile a collaborare con Marino al piano di recupero dell’area, dal cui destino potrà trarre il giovamento l’intero Casentino, sia per quanto concerne la viabilità, sia per quanto riguarda l’aspetto sociale se l’impegno di tutti sarà finalizzato alla realizzazione di un grande polo scolastico e un centro giovanile.

Un’idea promossa almeno una decina di anni fa proprio dalla nostra testata ed evidentemente condivisa dall’attuale amministrazione locale e dallo stesso Marino che, dinanzi ad una simile possibilità, avrebbe già fatto sapere di non tirarsi indietro. Che sia davvero la volta buona? Difficile dirlo. Soprattutto difficile stabilire se si possa iniziare a intravedere qualcosa di concreto già nel corso di quest’anno.

Una sola cosa è certa. Anche per il futuro il nostro giornale continuerà a mantenere alta l’attenzione su queste problematiche seguendone ogni sviluppo con la massima attenzione e l’oggettività che l’ha sempre contraddistinto nella speranza che questo 2024 possa essere ricordato più per i risultati raggiunti che per quelli ancora da conseguire.

Quando si cacciava… per mangiare

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di Lara Vannini – Oggi la Caccia si scontra quotidianamente con la voce dei tanti ambientalisti che vorrebbero il suo divieto, convinti del fatto che le risorse alimentari nella nostra società del benessere siano più che sufficienti senza ricorrere a pratiche ritenute inutili, ecologicamente dannose e anche inquinanti se pensiamo alle cartucce riversate ogni anno nei nostri boschi.

In passato però la Caccia, come tante altre attività, erano pratiche necessarie per integrare un’alimentazione poco sostanziosa e a volte poter avere un extra-guadagno, vendendo la selvaggina al mercato. Gli animali non venivano solo cacciati con il fucile, ma erano utilizzate comunemente anche le trappole per specie di piccola taglia. Una società quella contadina che aveva stabilito un proprio equilibrio tra l’uomo e l’ambiente fatto di relazioni sane volte a utilizzare le risorse della natura senza distruggerle.

Nonno Angiolo, grazie ai ricordi della figlia Flora, e Lorenzo Bondi sono due casentinesi doc che grazie alla ricchezza dei propri ricordi ci hanno permesso di ricostruire le giornate tipiche dei cacciatori di una volta e scoprire qualche curiosa abitudine e deliziose ricette di selvaggina.

Cacciatori per necessità Se noi potessimo passeggiare per un paesino montano di circa un secolo fa, ci accorgeremmo che quasi tutti gli uomini erano cacciatori perché non era un’attività sportiva così come siamo abituati a pensarla oggi, ma era un modo concreto di procurarsi cibo per sfamare la famiglia. Battute di caccia, trappole per animali, ogni pensata era buona per portare qualcosa da cucinare sulla tavola. Come ci racconta Lorenzo, chi andava a caccia non dedicava l’intera giornata a questa attività, ma eventualmente parte della mattinata quando tra un’incombenza e l’altra era possibile assentarsi qualche ora da casa.

Generalmente i boschi perlustrati erano nelle vicinanze del paese da cui partiva il cacciatore, le gambe restavano sempre il miglior mezzo di spostamento e poi “le selve” a differenza di oggi erano luoghi abitati, con sentieri ben battuti e riconoscibili, quella terra di mezzo che separava un paese da quello confinante. Anche per questo i pericoli per chi frequentava il bosco erano enormemente superiori ad oggi e non di rado succedeva qualche incidente dovuto a proiettili vaganti.

Generalmente il contadino partiva in perlustrazione da solo, a volte, anche a seconda della taglia dell’animale, in gruppo e, visti alla fine i risultati, gli animali cacciati venivano spartiti tra tutti i partecipanti. Come già detto, andare a caccia poteva essere molto pericoloso e non di rado avvenivano degli incidenti che potevano arrecare danni anche permanenti al malcapitato come la perdita della vista o delle dita delle mani.

Del resto il cacciatore era una persona comune che aveva ottenuto il porto d’armi (e a volte nemmeno quello!) per andare a caccia e questo gli permetteva di girare armato per i boschi in tutta serenità in cerca della preda. A volte quando il cacciatore rientrava, se aveva da sbrigare qualche incombenza, si portava dietro il fucile e solo in serata poi si preoccupava di riportarlo nella propria abitazione.

Dai ricordi della signora Flora, apprendiamo che andava a caccia anche qualche religioso francescano come Padre Valentino o Padre Ermenegildo parroco della chiesa di San Lorenzo a Dama. Se era tempo di castagnatura, qualcuno aveva il compito di preparare per la battuta di caccia una bella padellata di castagne arrostite dette “brice”, che poi sarebbero state mangiate nel bosco, durante il tragitto.

Come già detto la caccia era un’attività che si svolgeva nel corso della giornata, anche poche ore a seconda delle varie incombenze. Ovviamente i contadini andavano con gli abiti che avevano perché chiaramente non esisteva una “divisa” come siamo abituati a vedere oggi. Se era piovuto o faceva già freddo, venivano indossati dei pantaloni di tela pesante di velluto o fustagno, un paio di scarponi che venivano calzati anche nella quotidianità e qualche maglione di lana rigorosamente fatti a mano. A volte avevano anche un giaccone provvisto di tasche e alloggi dove sistemare le prede.

Dalla lepre al tasso Quali erano gli animali che maggiormente venivano cacciati? Sicuramente i più comuni erano la lepre, il cinghiale, la cui battuta veniva fatta in gruppo, volatili come le beccacce, i merli, le ghiandaie, le starne e in momenti di necessità anche il tasso che purtroppo veniva intrappolato con un procedimento tutt’altro che scontato nella propria tana e sacrificato per il sostentamento di tante bocche. La cacciagione andava così a implementare le altre attività su cui si basava l’alimentazione del contadino: l’allevamento degli animali da cortile, l’appezzamento di terra più o meno grande dove poter fare delle piccole coltivazioni domestiche e a volte il possesso di una piccola vigna o un uliveto.

Ricette della tradizione Come conveniva alla più tradizionale delle famiglie rurali, a casa le donne erano preposte alla lavorazione della cacciagione, sia da un punto di vista del trattamento della carne sia alla preparazione della ricetta stessa. È importante ricordare che più di un secolo fa non esistevano frigoriferi per la conservazione dei cibi e quindi era assolutamente necessario cucinare quanto prima i prodotti freschi e nel caso fare delle pietanze che si basassero su conservanti naturali come la neve ghiacciata, gli aromi, il sale ma anche il fumo usato soprattutto per il pesce e gli insaccati. La carne doveva prima essere “frollata” ovvero resa morbida e succosa privandola delle interiora, poi doveva essere tolto il famoso “sapore di selvatico”, attraverso il processo detto della marinatura. Le miscele utilizzate contenevano olio di oliva, aromi, spezie e aceto. Questo poteva richiedere anche più di 24 ore.

Tra le ricette della tradizione toscana come suggerisce Flora, spicca senza dubbio la “lepre in Salmì” il cui obiettivo era proprio quello di contrastare il tipico sapore della selvaggina. In questa ricetta la lepre subiva una marinatura di almeno 48 ore, prima di essere cotta. In seguito la carne era rosolata in una casseruola e nella stessa venivano aromatizzate anche le frattaglie per un tempo molto lungo, anche un paio d’ore. Salmì deriva da “Salmigondis” significa proprio pasticcio, insieme di tante cose diverse, nel nostro caso la mistura degli aromi.

E così in un tempo in cui la necessità diventava virtù, la caccia è stata un’attività che ha permesso a innumerevoli famiglie di sopportare una vita di difficoltà e ristrettezze tanto che come suggerisce Lorenzo è stato coniato il detto «Chi va a caccia e niente piglia, sta male lui e la famiglia»! 

La vera storia del “pallone bucato” di Moggiona

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di Fabio Bertelli – La fiaba è un racconto fantastico, solitamente di origine popolare. La storia che andremo a raccontare, per quanto possa avvicinarsi a questo genere letterario, non è tuttavia frutto della penna di Perrault o dei fratelli Grimm, ma riguarda l’incredibile vicenda che ha vissuto Danilo Tassini.

Il racconto narra di un bambino, Danilo, e del calcio di altri tempi, quello che metteva le persone a contatto diretto con calciatori ed allenatori, quello che permetteva a milioni di bambini di sognare ad occhi aperti. Danilo oggi ha 75 anni e vive a Bibbiena. Laureatosi in scienze naturali, ha dedicato la sua vita all’insegnamento (ben 38 anni) senza disinteressarsi di una sua grande passione: la storia locale, in particolare quella di Camaldoli e di Moggiona. Noi lo abbiamo incontrato e ci siamo fatti narrare i particolari di una straordinaria storia.

Ci racconta come si sono svolte le vicende? «Era l’agosto del 1957 quando a Camaldoli, dove abitavo, arrivò la Fiorentina in ritiro precampionato per ossigenarsi al fresco della foresta. La notizia ebbe un notevole clamore, tanto che appassionati da tutta la vallata raggiungevano Camaldoli ogni giorno in gran numero. Tra l’altro è giusto sottolineare che la Fiorentina di quel tempo non era composta dagli ultimi arrivati. L’anno precedente aveva vinto il campionato ed era stata la prima squadra italiana a raggiungere la finale della tanto agognata Coppa dei Campioni. Avevo nove anni ed ero emozionato da tale eccezionale evento. Fu proprio in uno di quei giorni che, mentre stavo giocando con una palla gialla che mi era stata regalata, mi si avvicinarono dei giocatori della Fiorentina per chiedermi se potessi prestargliela. Loro erano giunti senza palloni, in quanto il ritiro doveva servire più che altro a mettere benzina nelle gambe. Il caso volle che, giocando nel bosco, la palla si bucò, forse per colpa dei ricci del castagneto. I giocatori, spiaciuti dall’avvenimento, mortificati, mi promisero che mi avrebbero fatto recapitare un pallone con tutte le loro firme. Tuttavia, passavano gli anni, ma questo pallone non arrivava, ed io, sinceramente, avevo perso definitivamente le speranze. Tutto ciò sino all’estate scorsa quando mi sono visto recapitare da una signora, della quale purtroppo non conosco il nome, quel pallone che da bambino mi era stato promesso. È stato un gesto assolutamente inaspettato, che mi ha fatto molto piacere. Colgo l’occasione proprio per ringraziare la Fiorentina per questo bellissimo gesto».

Come è stato possibile questo dopo ben 66 anni? «Ciò che ha permesso tale accadimento è strettamente legato alla mia fede calcistica. Vi spiego brevemente. Da bambino scelsi per quale squadra fare il tifo. Considerando anche che ero rimasto amareggiato per il pallone, il mio cuore andò verso Roma, sponda Lazio. Da qui ho alimentato negli anni la mia passione per la squadra biancoceleste e ho coinvolto i miei familiari, in particolare mio nipote Maurizio e mio figlio Massimo. Proprio Maurizio ha giocato un ruolo particolarmente importante nello svolgersi di questa storia. Egli è attualmente il gestore dell’Albergo Ristorante Bar Tassini, storico locale di Camaldoli aperto da mio padre e da mia madre nel 1932 e gestito negli anni dalla famiglia Tassini (Maurizio fa parte della III generazione). Maurizio, innamorato, forse anche più di me, della squadra romana, ha deciso di esporne sciarpe e gagliardetti all’interno del bar. Non essendo prassi comune perqualcuno della nostra vallata tifare Lazio, molto spesso gli viene rivolta la domanda sul perché di tale scelta. Ecco che Maurizio è solito raccontare la storia che mi riguarda. La svolta è avvenuta quest’estate quando mio nipote ha narrato le mie vicende ad una signora, che rimase particolarmente colpita, tanto da raccontare tutto al marito. Questo, facendo parte dell’ambiente della Fiorentina si è sentito in dovere di rimediare e ha deciso di fare un gesto inaspettato, quello di cui vi ho parlato precedentemente. Dunque, se tutto ciò è stato possibile, un grande plauso va a mio nipote che con la sua tenacia ha raccontato questa storia a tante persone».

Di tutto ciò, cosa è che l’ha colpita maggiormente? «Sicuramente ho apprezzato il gesto della Fiorentina, che si è dimostrata una società seria e impegnata a dare un’immagine positiva di se stessa. Un altro punto che mi ha colpito è stato il clamore che questa storia ha generato nei media. All’improvviso questo racconto ha avuto un boom incredibile, tanto da essere raccontato in varie trasmissioni radiofoniche e televisive, fino a comparire al TG Studio Aperto di Italia Uno. Penso che probabilmente questo sia anche dovuto al periodo pesante e stressante che noi tutti stiamo vivendo. Notizie come questa possono alleviare, almeno per un momento, i pensieri di tutti noi e farci fare un sorriso».

Nel concludere questa piacevole chiacchierata, le vorrei chiedere che significato ha avuto, ed ha tutt’ora, il calcio nella sua vita. «Il calcio ha rappresentato una parte fondamentale della mia vita giovanile. Un bambino che cresce in un posto isolato come Camaldoli trova nel pallone un fedele compagno di gioco che lo accompagna nella crescita. Ho coltivato la mia passione per questo sport, giocando nel Soci e in altre squadre del Casentino. Quello che il calcio mi ha dato è stato veramente importante. Giocare in una squadra significa anche trovare dei compagni di vita, con i quali condividere le proprie esperienze. Per quanto riguarda il rapporto attuale, continuo ad essere un grande appassionato di questo sport e della Lazio. Questa vicenda, per quanto incredibile e straordinaria, non mi ha tuttavia fatto cambiare fede, anche se colgo nuovamente l’occasione per ringraziare la società viola del gesto». Ringraziando Danilo per la sua cordialità e disponibilità, non ci resta che chiudere gli occhi e sognare, proprio come un bambino di fronte ad una fiaba.

Le offerte di lavoro in Casentino del Centro per l’Impiego

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Le offerte di lavoro in Casentino del Centro per l’Impiego. Anche questa settimana gli incentivi e le opportunità regionali per i datori di lavoro e le persone fisiche e le chiamate dirette al lavoro.

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La scuola è un incubo?

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di Sefora Giovannetti – Forse penserete che questa domanda sia assurda o estremamente eccessiva ma non vi rendete conto di quante volte viene espressa da un ragazzo. La sento e la risento in più occasioni, da studenti di ogni tipo di scuola. Ho voluto riportarla qui per cercare di capirne l’origine. Partiamo dall’assunto che studiare ha fatto, da sempre, fatica a tutti. Non è vero che ad alcuni allievi è sempre piaciuto studiare, lo dicono coloro che ormai hanno la memoria offuscata dal passare degli anni. Studiare non sempre è simpatico. Ora, però, è altresì vero che asserire ciò, non significa affermare che la scuola sia un incubo. Un incubo è qualcosa di terribile, di tremendo.

Come si fa ad alzarsi la mattina e pensare di andare in un luogo così tanto brutto? Cosa è che vedono di così orribile? Ho provato a ricordare quando anche io andavo a scuola e le emozioni che sono emerse riguardavano il disagio verso alcune materie e il sonno in certe mattine invernali, ma niente a che vedere con l’incubo. Ricordo che andare a scuola voleva dire anche incontrare tanti amici, ridere, conoscere nuove cose, niente di troppo sconveniente. Tali emozioni erano vissute, non solo da me che semmai potevo essere interessata allo studio, ma anche da amiche che non lo amavano affatto. Che cosa è accaduto in questo lasso di tempo che ha portato i giovani allievi a parlare della scuola in termini così estremi? Forse la scuola da troppo tempo aveva promesso di cambiare, di modificare i propri metodi di insegnamento, ma niente da fare, siamo ancora al lontano 1800, sulla falsa riga del libro cuore, facciamo ancora lezioni frontalissime dove infarciamo le menti dei giovani allievi di nozioni su nozioni.

Eppure in tutti i corsi di formazione i docenti vengono redarguiti, attraverso lunghe e noiose lezioni frontali, di non organizzare lezioni frontali. Interessante. In classe si sta tutti seduti per ore e ore, si ascolta in silenzio, se si disturba, nota nel registro e via e via… niente di nuovo sotto il sole. Non si parla troppo di passione né di cosa possono servire queste lezioni, intendo nella vita di tutti i giorni, si fa meno attenzione al ragionamento rispetto alla questione mnemonica. Memorizzare nozioni su nozioni che dopo, irrimediabilmente, si perdono. I professori sembrano volere essere sempre più amici dei ragazzi, raccontando le proprie vite, le contrarietà, facendo battute a volte anche poco opportune, pur di strappare un sorriso, che poi, purtroppo, si trasforma in beffa. Di amicizia tra le due parti non penso si possa parlare visto lo scarto generazionale, tutt’al più si dovrebbe parlare di rispetto o addirittura stima, ma questa è un’altra storia.

La stima non si ottiene compiacendo, ma facendo sviluppare attitudini e potenziando talenti, attività di sicuro più complessa. Penso, per questo, che i ragazzi si trovino di fronte ad un vuoto, non esiste più la persona più grande di loro che può aiutarli nel cammino. Si trovano in un luogo, la scuola, forse sin troppo scollegato con la realtà, luogo del quale forse capiscono poco l’utilità. Certo che in tutta questa situazione la società non aiuta. Siamo circondati dal niente: tanti ragazzi su Tik Tok che ostentano saperi, sfoggiando lavori come il creator. Non dico che non possano esistere nuovi lavori e che questi non possano essere svolti sui social, ci mancherebbe. Ma è la poca professionalità, la mancanza di argomenti, la scelta dei contenuti che fa di queste attività una vera e propria beffa. Tanto che, di questi visi noti sui social, ogni tanto qualcuno si perde tornando a vendere panini a tre euro.

Qual’è il problema? Il problema sta nel fatto che le telecamere lasciano vedere solo il momento della gloria, il momento in cui riscuotono tanti like o visualizzazioni. Quando poi la realtà sopraggiunge e i protagonisti di questi video non trovano più argomenti da offrire, allora nessuno ne parla più. Nell’illusione collettiva rimane l’idea del successo, ottenuto in poco tempo e senza sforzo. Una tale idea rimane nella mente dell’adolescente medio che la conserva e se la porta tra i banchi. Certo alla scuola abbiamo imputato tante colpe, ma dall’altra parte, abbiamo un esercito di ragazzi che credono in occupazioni effimere, veri e propri giochi economici nelle mani di pochi imprenditori. Ecco che allora si parla di incubo, qualcosa di incomprensibile poiché quel che è dentro è troppo lontano da ciò che è fuori. Una tale frattura è sempre esistita, oggi forse possiamo parlare di vero e proprio scollamento.

Come riuscire a sanare? Difficile dirlo, di certo non basta scimmiottare il modo di fare dei ragazzi per poterli appassionare, rischieremmo solo di essere ridicoli. Forse dovremmo tutti rivedere le proprie posizioni: i ragazzi uscire dalle illusioni social e la scuola identificarsi in un ruolo un tantino svecchiato e arricchito di stimoli.

(SCUOLA SOCIETA’ sognando futuri possibili è una rubrica a cura di Sefora Giovannetti e Mauro Meschini)

Mangiare per due

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di Beatrice Boschi – Una donna in gravidanza non deve “mangiare per due”, come molti ancora pensano, ma piuttosto due volte meglio! Lo stato nutrizionale di una donna in età fertile deve essere attentamente monitorato già prima del concepimento, sia per quanto riguarda l’assunzione di macro e micronutrienti per evitare possibili carenze nutrizionali, sia per quanto riguarda il peso della futura gestante.

Durante il periodo della gravidanza il corpo di una donna subisce una serie di cambiamenti anatomici e fisiologici per far fronte alle richieste di crescita della placenta e del feto e per avere le riserve utili per l’allattamento dopo il parto, e inevitabilmente il peso corporeo aumenta. Ingrassare in gravidanza può essere un timore comune a molte mamme, bisogna seguire un corretto regime alimentare per evitare di prendere troppo peso e allo stesso tempo per fare in modo che la mamma abbia le forze e i nutrienti necessari per affrontare la gravidanza, e il bambino per svilupparsi correttamente.

Il corretto aumento ponderale viene valutato in funzione del peso pregravidico (prima di rimanere incinta), ed in particolare: • Per le donne che iniziano la gravidanza sottopeso, le necessità di energia sono maggiori e l’aumento di peso desiderabile è circa tra i 12.5 e i 18 kg. • Per le donne che iniziano la gravidanza in situazione di normopeso, fra gli 11,5 e i 16 kg. • Per le donne che iniziano la gravidanza in situazioni di sovrappeso è preferibile limitare l’aumento di peso fra i 7 e gli 11,5 kg. • Per chi è obesa già all’inizio della gravidanza, l’incremento raccomandato è di 5-9 kg. • Nella gravidanza gemellare invece è consigliato un aumento di peso di 16-20,5 Kg.

L’aumento eccessivo è causa di diverse problematiche più o meno serie che interessano sia mamma che bambino: si va da un più alto rischio di parto cesareo alla sofferenza fetale, alla macrosomia (feto molto grande). Non si tratta quindi solo di un fattore estetico, ma di una vera e propria questione di salute.

Come mangiare in gravidanza quindi? La raccomandazione principale è una dieta basata sui principi della Dieta Mediterranea, con una corretta ripartizione dei pasti per non fare lunghi digiuni o pasti molto veloci e troppo abbondanti di difficile digestione. Si consiglia quindi di fare i tre pasti principali (colazione, pranzo e cena) e due spuntini, uno a metà mattinata e l’altro a metà del pomeriggio. In gravidanza, oltre la sana alimentazione, è fondamentale svolgere una moderata attività fisica. A parte in alcuni casi di gravidanza a rischio dove lo sport è vietato, muoversi è fortemente raccomandato. Nelle donne sane si consiglia un’attività aerobica di moderata intensità per 150 minuti/settimana come nuoto, cammino, cyclette, yoga e il pilates.

Dott. SSA BEATRICE BOSCHI Biologa e nutrizionista, beatrice.boschi@virgilio.it – tel. 347 8482948

(Rubrica ESSERE L’Equilibrio tra Benessere, Salute e Società)

I misteri del Badalischio, il libro

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di Francesca Maggini – Paese che vai leggenda che trovi… l’Italia è un territorio molto ricco di tradizioni, di miti fatti di mostri, fate, folletti, fantasmi e creature demoniache. Leggende, storie e racconti popolari che ormai si tramandano di generazione in generazione e costituiscono un patrimonio di inestimabile valore legato da sempre al nostro territorio e alle nostre stesse tradizioni.

Chiunque, da qualsiasi parte provenga, può raccontare una qualche storia leggendaria tipica del proprio paese di nascita. Il Casentino, terra che ospita antichi borghi, suggestivi boschi, foreste secolari, laghi, ruscelli e castelli ancora oggi avvolti dal mistero, vanta una leggenda affascinante che ormai, da sempre, richiama l’attenzione di molti. Nato o forse liberato da una frana nel 1600, c’è chi racconta di aver visto un essere strano, multiforme dal color verde scuro o forse grigio squamoso con 4 piccole zampe e un corpo allungato, tipo quelle di un serpente.

Il nome che gli è stato dato è Badalischio e questo strano e terrificante mostro, si trova molto spesso come protagonista di racconti, leggende che attraversano in lungo e in largo il nostro territorio. Basilisco, Badalischi e altri fenomeni è il libro, edito da Fruska, di Fabrizia Fabbroni (nella foto in basso) che cerca di dar voce, attraverso una lodevole ricerca, a questa creatura. Fabrizia, scrittrice originaria di Bologna che vive oggi fra Roma e Arezzo, con grande abilità di penna, competenza e infinita curiosità cerca di raccontare la storia, le storie di queste mostro e lo fa in un modo singolare, originale e articolato che esula dalla semplice raccolta di testimonianze, testi o mere informazioni, del resto sarebbe quasi impossibile un semplice narrare o raccontarne la storia visto che del Badalischio, da sempre, ne parlano in tanti e in diversi momenti storici fino ad arrivare ai nostri giorni attraverso un percorso complesso e articolato fatto di tante voci e tanti registi.

Così Fabrizia, donna di infinita cultura e animo gentile, raccoglie sapientemente, senza confondere o mescolare varie testimonianze e interventi, diversi punti di vista, apre confini geografici e culturali, facendo si che il libro diventi un progetto collettivo nel quale sono stati raccolti tanti spunti interpretativi. Il libro è corredato dalle illustrazioni di Andrea Rossi e da piccoli disegni fatti dagli alunni della scuola di Corezzo. Questo testo non nasce con la pretesa di chiarire e far luce su questa leggenda e non offre, alla fine, nessuna certezza e nessuna chiara interpretazione o lettura di questo mostro, vista la natura vasta e sfuggente del soggetto. Fa qualcosa di molto di più, perché lascia spazio alla fantasia o meglio ad una personale interpretazione ed elaborazione di quanto vi è stato narrato, in parte poetica e in parte di prosa, in un percorso che raggiunge l’obiettivo di raccontare, pagina dopo pagina, senza però mettere mai un punto, considerata la mutevole natura del Badalischio.

Andrea Rossi, coordinatore dell’Ecomuseo del Casentino, è stato il promotore della stesura di questo libro, considerando da sempre il Badalischio il re, insieme alle fate, dell’immaginario tradizionale del Casentino. Nella sua introduzione si ribadisce come il Badalischio si manifesti in molti episodi nel corso del tempo e a volte sia richiamato per fornire spiegazioni a fatti inspiegabili, il Badalischio del resto abita il Casentino e in un certo senso ne custodisce fatti e segreti poiché conosce bene i luoghi più sensibili e vulnerabili. Le sue illustrazioni, alcune a completamento del testo, altre che si muovono autonomamente, corredano a puntino le pagine del libro e come ci racconta Andrea «sono un contributo per tentare di restituire, invano, la complessità e le mille facce sfuggevoli del badalischio».

Dalla lettura del libro, pagina dopo pagina, si origina a mio avviso, il suo principale merito: riuscire a cristallizzare la sfuggente ambiguità di questo soggetto in un racconto in grado ancora oggi, in una società che tende a perdere i propri miti, le proprie leggende e in un certo senso la propria storia, di interrogare e incuriosire cercando di restituire voce alle nostre stesse origini e alla nostra preziosa tradizione popolare stimolando all’infinito la fantasia di ogni lettore.

Del resto come ci ricorda Fabrizia «senza mito non si vive, o almeno non si vive interamente. I miti e le leggende costituiscono le pietre di quel ponte che ci connette a mondi dove possiamo trovare le ispirazioni e gli input per vivere il nostro essere fatto di tutto, di materia, fantasia e spiritualità per rifondare finalmente un’umanità che si meriti sé stessa».

Il vero, il reale del Badalischio ognuno dovrebbe cercarlo nel libro, queste pagine possono essere fonte di ispirazione per costruire qualcosa di personale fatto di ideali e pensieri propri. Questo strano animale multiforme racchiude significati diversi e diverse interpretazioni che possono aprire la mente e perché no il cuore, di ogni serio lettore.

 

Casentino 2024, e se…

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di Mauro Meschini – Nella prossima primavera, oltre alle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo, per le quali sembra ormai ampiamente partita una invadente campagna elettorale a cui dovremo assistere per diversi mesi, è previsto anche un appuntamento amministrativo che interesserà praticamente tutti i comuni del Casentino, esclusi Montemignaio e Capolona che hanno già votato. A questa notizia, e considerato l’appeal che hanno le elezioni negli ultimi anni, si potrebbe correre il rischio di sentirsi domandare: «E allora?».

Ma, pur consapevoli che questo potrebbe essere un possibile esito a cui andare incontro, restiamo convinti che, pur se a volte imperfetto, lo strumento del voto libero è comunque il migliore strumento di Democrazia che sia stato sperimentato. Uno strumento comunque neutro, che in relazione ai momenti o alle vicende storiche può essere vissuto e considerato in modo diverso, ma che non cambia il suo intrinseco valore. Chi ha avuto l’occasione di vedere al cinema il film «C’è ancora domani», di Paola Cortellesi, ha un ottimo esempio per evidenziare dove sono le profonde differenze che esistono tra l’appuntamento elettorale raccontato nella storia e le elezioni che si svolgono in questi anni, il voto in sè è rimasto lo stesso, quello che cambia, e molto, è l’entusiasmo, la partecipazione, il valore che ogni singolo cittadino attribuiva allora a questa pratica democratica e non più, spesso, oggi.

Certo nel 1946 i motivi per essere emozionati e motivati erano veramente molti, ma crediamo che anche oggi ci sarebbero buoni motivi per fare altrettanto, se non altro perché, come detto, la Democrazia è comunque la conquista più bella che ci è stata tramandata ed è bene ricordare che non è per sempre, se non viene continuamente arricchita, valorizzata, tutelata.

Tornando al voto amministrativo, il cui richiamo probabilmente non potrà comunque equiparare in nessun caso quello di quasi 80 anni fa, abbiamo voluto provare ad immaginare cosa accadrebbe se, questa volta, le cose andassero in maniera diversa.

In particolare abbiamo immaginato una vigilia elettorale nuova, non con le solite liste last minute improvvisate che si vedono spuntare come funghi fuori stagione, ma un percorso partecipato che porti all’individuazione di proposte e candidati. Questo soprattutto dove c’è il rischio concreto di vedere realizzati terzi mandati o conferme in eterno, oppure dove da tempo si lavora sottobanco per estrarre dal cilindro il coniglio presentato come una novità, mentre invece rappresenta pienamente un elemento di continuità e conservazione.

Ma la vera novità che ci siamo immaginati è che questi percorsi, partiti magari in realtà diverse, abbiano presto preso strade comuni coinvolgendo i cittadini, non solo su tematiche relative al fare o meno un marciapiede, ma nella costruzione di un progetto complessivo che abbia come contesto l’intero Casentino.

Ecco la vera, unica e utile novità delle elezioni amministrative 2024: costruire un progetto di vallata che venga riproposto, nei suoi punti principali e caratterizzanti, in ogni comune o almeno in quelli più abitati, con la costruzione di liste che andranno a proporre ovunque lo stesso simbolo, un simbolo che permetta di riconoscere l’ambizione di andare ben oltre i limiti della frammentazione attuale e metta le basi per una totale trasformazione del Casentino.

Immaginiamo il fastidio che una proposta di questo genere avrà già provocato in alcuni personaggi, sarebbe già una nota positiva, il segno tangibile che la strada intrapresa è quella giusta. Sarebbe probabilmente anche l’unico modo per provare a restituire entusiasmo, interesse e centralità ad un appuntamento con la Democrazia che potrebbe rischiare questa volta di essere ancora più scontato e povero di idee se queste restassero, per l’ennesima volta, confinate dentro gli stretti confini dei singoli campanili. La prospettiva che abbiamo immaginato ha inequivocabilmente un punto di forza che è il progetto, un progetto aperto, di vallata, che raccolga idee e contributi di tante e tanti.

In più occasioni, nel corso del 2023, sulle pagine di questo giornale abbiamo ospitato, sia nella rubrica «Spazio alle Idee» sia come singoli contributi, tanti articoli che, nelle nostre intenzioni, dovevano rappresentare un primo piccolo patrimonio di proposte da mettere a disposizione.

Riproponiamo qui di seguito brevi brani tratti da alcuni articoli. Luca Galastri: «… Un Comune Unico. La nostra geografia ma anche le dinamiche del mondo spingono verso un’ovvia conclusione: questa terra è destinata ad essere unificata sotto una sola gestione. Il mio sogno e quello di tanti è quello del Comune Unico del Casentino. Questo è il primo ed essenziale punto di partenza perché solo un ente unitario può avere la forza e le risorse per promuovere la bellezza di questa terra, avere il peso politico necessario per rafforzare i servizi ai cittadini ed implementare investimenti nei trasporti».

Giorgio Renzi: «… Sarebbe infine necessario puntare su luoghi di aggregazione e su un progetto culturale permanente di vallata. La cultura deve essere lo strumento di interconnessioni con altre realtà, anche questo aiuterebbe a non essere isolati e spingerebbe i giovani a rimanere! Sembra che chiuderà il cinema Italia di Soci, ma non è pensabile che nessuna sala rimanga in Casentino, il cinema è anche aggregazione, incontro, non solo spettacolo».

Francesco Trenti: «… La prima (riflessione) che mi sento di fare, e intorno alla quale ci stiamo confrontando con altri colleghi, è quella della creazione di un Sistema Museale Casentinese ufficiale. […] per chi non lo sapesse, la normativa regionale (e nazionale) vigente prevede che un Sistema abbia un suo statuto/regolamento, una sua organizzazione, una sua programmazione unitaria. Cosa fondamentale è che il Sistema sia alla base di un progetto di sviluppo culturale omogeneo e amalgamato e non una mera somma di singoli. La varia natura e appartenenza delle realtà casentinesi non può però prescindere da una scelta politica netta e chiara fra due strade ben delineate: da un lato il proseguimento dello status quo, considerando la cultura al servizio dell’interesse particolare, con un orizzonte di tempo che personalmente non vedo andare molto oltre la prossima legislatura amministrativa; dall’altro una scelta che non so se definire coraggiosa, ma senz’altro lungimirante, che almeno nel campo dell’offerta museale faccia parlare il Casentino con una sola lingua. Capirete dalle mie parole da che parta io stia…».

Luca Conticini: «… Per tentare di recuperare almeno parte del tempo perduto, a mio avviso, occorre un’idea che proietti in avanti la nostra valle per almeno due decenni: anche questa volta si tratta di realizzare un’infrastruttura, un’autostrada, ma non per le auto; un’autostrada digitale. Lasciando le argomentazioni tecnico-scientifiche su queste materie a chi ha competenze ben più forti delle mie (e nel Casentino non mancano!), appare evidente che, usufruire di tali infrastrutture, aiuterebbe le aziende a recuperare parte delle difficoltà dovute all’isolamento territoriale».

Marica Marzenta: «… Un Casentino dove fare visite mediche in tempi dignitosi non dopo attese di mesi se non anni, e avere la possibilità di non ricorrere alle strutture private anche se le uniche efficienti per avere appuntamenti a brevissimo termine, sono costose e non tutti possono permettersi la visita privata, ma se urgente davvero è l’unico modo e, si sa, di fronte alla salute non si bada a spese… Per non parlare del reparto maternità che ormai da più di 7 anni è chiuso a Bibbiena e chi non ha fatto una corsa in ospedale ad Arezzo per partorire, chi non ha fatto ricorso al pronto soccorso pediatrico sempre ad Arezzo perché Bibbiena è rimasto solo un miraggio…».

Gianni Marmorini: «… Dovremmo sostituire il verbo vivere con convivere, il verbo esistere con coesistere. Non a caso forse il sostantivo vita nella lingua biblica esiste solo nella forma plurale chaim, quasi a ricordarci che nessuna vita può esistere al singolare. La convivenza tra i popoli, che il fenomeno delle migrazioni sta mettendo all’ordine del giorno, il rapporto con gli alberi e la convivenza con gli animali sono tutti elementi complessi della nostra epoca, ma da una felice soluzione di questa convivenza dipende la possibilità di vita per il nostro mondo».

Simone Borchi: «… I progetti di sviluppo turistico devono partire dalla consapevolezza che non possono essere calati sulla fotografia del territorio, ma devono relazionarsi con i suoi coltivatori-gestori: in assenza di questi verrebbe a mancare il presidio che consente di mantenere una residenza diffusa, un buon assetto idrogeologico e un livello minimo di servizi commerciali e alla persona. Questi residenti possono fornire alle strutture turistiche conoscenze, lavoratori stagionali, servizi di manutenzione, prodotti tipici e soprattutto un territorio già organizzato in cui il progetto turistico può portare un valore aggiunto».

«… La messa in sicurezza del bacino casentinese dell’Arno non dipende però dalle sole opere idraulico-ingegneristiche, peraltro non realizzate, ma anche da interventi manutentori, opere di piccola regimazione agricolo-forestale, salvaguardia dei terreni fertili e quindi della loro permeabilità. Quest’ultimo aspetto ricomprende la problematica dell’espansione edilizia in genere e in particolare dell’edificazione delle aree allagabili; la piana casentinese è ormai gravemente alterata da un proliferare di aree artigianali-industriali che hanno invaso gran parte del fondovalle secondo una logica puramente localistica, con danno per le stesse attività imprenditoriali che non hanno a disposizione quelle 2-3 aree in cui potevano essere concentrati servizi e strutture».

Se c’è un tratto comune in questi interventi è proprio il loro collocare idee e proposte in un contesto a livello di vallata, spiegando bene quanto il frazionamento abbia nel tempo pesantemente penalizzato il nostro territorio.

Per questo crediamo che il primo punto del programma delle liste che si presenteranno con lo stesso simbolo dovrà essere un cammino condiviso, nel corso della legislatura, per arrivare finalmente nel 2029 all’elezione del Sindaco e del Consiglio comunale unico del Casentino.

Facciamo in modo e impegniamoci affinchè quello che abbiamo immaginato possa diventare realtà.

La cura dei sentieri

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di Fiorenzo Rossetti – È una lunga “autostrada” quella dedicata al cammino. Una rete viaria di oltre 110.000 km che attraversa il territorio italiano. Stiamo parlando dei sentieri. Parchi naturali e sentieri sono l’accoppiata vincente e inseparabile. Il sentiero consente, attraverso il cammino, di introdursi nel territorio con delicatezza, letteralmente in punta di piedi, rappresentando lo strumento migliore (per il ritmo lento) per andare a scoprire e conoscere quello che ci circonda.

Fare escursioni o trekking sui sentieri consente di immergersi totalmente nell’ambiente, assumerne gli odori, i sapori e le sensazioni, fare incontri con persone locali e scoprire valori altrimenti invisibili agli occhi. Per le comunità locali il sentiero è un vettore per incentivare lo sviluppo economico delle località interne meno conosciute, contribuendo ad attirare turisti per rafforzare le economie. Il sentiero è anche strumento di controllo e presidio del territorio. Negli ultimi anni sono nate norme che hanno offuscato la possibilità di difendere questo prezioso bene.

Una, ad esempio, la L.R. 14/2013 dell’Emilia-Romagna, che ha messo in seria difficoltà la tutela delle vie escursionistiche da traffico motorizzato (enduro, motocross e trial). Vi è poi l’inpasse del Codice della strada che si limita a fornire una definizione del sentiero, ma non ne disciplina le regole di circolazione. Questo piccolo, ma sostanziale particolare, potrebbe consentire la limitazione del traffico motorizzato e una più cospicua cura dei percorsi. Infatti, il Codice individua e classifica le tipologie di strade: autostrade, strade extraurbane (statali, regionali, provinciali, comunali), strade urbane e, da ultimo, itinerari ciclopedonali…ma non il sentiero.

Di conseguenza, al sentiero non si applica il Codice della strada. Il sentiero non è – come accade per una strada – la conseguenza della realizzazione di una infrastruttura specificamente costruita dall’uomo. Il sentiero è il frutto del passaggio costante nel tempo di persone dedite a specifiche attività (agricoltori, pastori, boscaioli, viandanti, pellegrini) e di animali (sia come greggi o branchi, sia allo stato libero). La parola sentiero è però saldamente presente nella Legge n. 91 del 1963 sul Club Alpino Italiano (CAI). Questa Associazione nazionale, fondata nel lontano 1863, già negli Anni ‘60 del secolo scorso, aveva capito il valore dei sentieri, sia dal punto di vista fruitivo, che culturale ed economico. Questa norma infatti assegna al CAI la possibilità di provvedere, a favore sia dei propri soci, sia degli altri, al tracciamento, alla realizzazione e alla manutenzione di sentieri, opere alpine e attrezzature alpinistiche.

Per questi motivi e per una lunga e positiva tradizione di collaborazione (non dimentichiamoci che il CAI è stato uno dei promotori dell’istituzione del Parco), nel mese di dicembre scorso, è stato rinnovato l’accordo tra Ente Parco Foreste Casentinesi e Club Alpino Italiano per la cura ordinaria degli oltre 800 chilometri di sentieri presenti nell’area protetta. Rappresentanti del Parco e i due Presidenti dei Gruppi regionali Toscana ed Emilia-Romagna del CAI, hanno sottoscritto un accordo per il coordinamento, aggiornamento e manutenzione in materia di sentieristica. Un accordo triennale che prevede la segnatura orizzontale del tracciato (le strisce bianco-rosso), la ripulitura dei sentieri, l’asportazione dei rifiuti, piccole regimazioni idriche, manutenzione e revisione della cartellonistica verticale in legno, cura della manutenzione e dell’ospitalità nei rifugi gestiti, monitoraggio sullo stato dei ricoveri più in generale e segnalazione di particolari situazioni di degrado.

Per coordinare queste attività viene costituito un apposito gruppo di lavoro sulla sentieristica. L’importo triennale totale a disposizione dei due Gruppi regionali del CAI (che poi si avvarranno delle locali Sezioni CAI) è di 40 mila euro. Una cifra dal bilancio dell’Ente Parco, che con fluttuazioni, si mantiene stabile negli anni. Ritengo sia una quota insufficiente rispetto agli onerosi compiti che vengono assegnati al CAI. Il sentiero è infatti una infrastruttura viaria che serve a diverse economie; dai rifugi e strutture alberghiere e dedite alla ristorazione, alle guide che portano a spasso i propri clienti, senza poi dimenticare chi dedica il proprio tempo libero per fare escursioni.

A questo punto mi auguro che, sulla scia dell’accordo, il Parco attui politiche per favorire una legge organica a tutela dei sentieri ed iniziative, questa volta strutturate (come competerebbe ad un Parco), di valorizzazione delle attività escursionistiche sane, rispettose, educanti e formative.

(L’ALTRO PARCO Sguardi oltre il crinale è una rubrica di Fiorenzo Rossetti)

Il mistero della Macìa dell’Ommorto

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di Terenzio Biondi – I giornali e le TV locali non ne hanno ancora parlato, ma il mistero è stato finalmente risolto. Senza ombra di dubbio. Da tempo non si parlava d’altro: l’altezza della Macìa dell’Ommorto era, negli ultimi mesi, aumentata di un buon mezzo metro. Una cosa strana, davvero strana. Come tutti i casentinesi sanno (beh, non proprio tutti…), la Macìa dell’Ommorto è quel cumulo di pietre in località Omomorto (o Ommorto), lungo la vecchia strada medioevale, quasi parallela all’attuale S.P.70, che dalla Consuma porta in Casentino, proprio nel punto in cui si divide per raggiungere da una parte il castello di Romena e dall’altra il castello di Poppi.

Lì fu sorpreso dai soldati del Bargello fiorentino, nel lontano 1281, il celebre falsario Mastro Adamo, mentre a cavallo si recava alla Consuma, le bisacce piene di fiorini d’oro falsificati nel castello di Romena. Fu preparato un rogo e in poco tempo le fiamme avvolsero il corpo del falsario e le sue ceneri andarono disperse ai quattro venti. Ce lo racconta anche Dante nel XXX canto dell’Inferno.

E siccome l’ombra di Mastro Adamo appariva spesso in quei luoghi, la gente che di lì passava, proprio per evitare incontri poco piacevoli col fantasma del falsario, gettava una pietra nel punto del rogo. Così, di pietra in pietra, ne è venuto fuori un bel cumulo di pietre, la Macìa dell’Ommorto, appunto; da secoli lì.

Se ne erano accorti, tempo addietro, gli abitanti della zona: l’altezza del cumulo di pietre sembrava aumentata. Il sospetto era poi divenuto certezza paragonando vecchie foto con foto attuali. Un bel mistero. E per svelarlo alcuni giovani di Pratovecchio ormai da giorni sorvegliavano, ben nascosti, la zona. Così la scorsa settimana sono stati sorpresi i “colpevoli” mentre, sul far del giorno, scaricavano dal portabagagli dell’auto una balla di pietre e le gettavano sulla cima della Macìa.

Non hanno avuto problemi a spiegare i motivi del loro gesto; anzi, si sono quasi arrabbiati con quei miscredenti di Pratovecchio e per poco non sono volati cazzotti. Non dirò i loro nomi, ma si tratta – ormai lo sanno tutti – di due pescatori di Bibbiena. I due avevano cominciato a frequentare i torrentelli della zona e la pesca andava più che bene, fino a che non avevano avuto incontri, che definivano terrificanti, con un fantasma. La prima volta nel Fosso della Villa, là dove è attraversato dal sentiero 52 che scende dalla Badiola, alle prime luci dell’alba: un’ombra proprio sulla riva del torrente, che faceva loro dei cenni con le mani magrissime che uscivano dalle maniche enormi di una tonaca bianca.

E la settimana dopo nel Fosso di Caiano: un’ombra bianca, a cavallo, che emetteva strani lamenti mentre sembrava volare in mezzo alla nebbia del mattino in direzione di Fonte allo Spino sotto Monte Pomponi. E allora cosa avevano pensato i due torrentisti?

Senz’altro era l’ombra di Mastro Adamo, e per tenersela buona, anzi per non incontrarla mai più, dovevano fare quello che era stato fatto per secoli: gettare qualche pietra sopra la Macìa. E siccome è sempre meglio abbondare, non avevano badato a spese, cioè… a numero di pietre. C’è voluto l’intervento di un noto studioso di Stia per convincerli a smettere con le pietre, altrimenti di qui a qualche anno la Macìa dell’Ommorto supererà per altezza la piramide di Cheope.

E poi ora… sembra che l’ombra di Mastro Adamo sia scomparsa. È più di un mese che nessun pescatore l’ha segnalata nella zona. Fino a quando non si sa, ma per ora si può pescare tranquilli dalle prime luci dell’alba fino al tramonto. Speriamo bene…

(Rubrica I RACCONTI DEL TORRENTE Storie vere, leggende, incontri… nei torrenti del Casentino di Terenzio Biondi)

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