di Francesco Benucci – Correvano gli anni ’60 del 1800 e un’Italia da poco unita muoveva i suoi primi passi tra brigantaggio, emigrazione, lotta all’analfabetismo, tentativi di industrializzazione. Erano passi incerti, spesso anche fallaci ma indubbiamente generosi perché “trainati” dalla comprensibile volontà di smuovere le acque cercando di instillare il vento del cambiamento in situazioni perlopiù stagnanti. Ebbene, di questa ferrea determinazione, si ebbe, e tuttora ne abbiamo, inconfutabile prova, anche in quel di Stia dove si pensò bene di smuoverle sul serio, le acque.
Merito di Carlo Siemoni, proprietario della fabbrica tessile della Tintoria, inattiva e spogliata di macchine ed utensili dal 1844 specialmente a causa di un avvallamento di poggi soprastanti che aveva portato via i canali d’acqua e di conseguenza la loro forza motrice. La questione risultava particolarmente gravosa per una comunità che, già a partire dal ’700, aveva uno dei suoi punti di forza nella manifattura della lana: l’apporto della famiglia Ricci e dei fratelli Beni, la riorganizzazione di vari opifici preesistenti compreso quello della Tintoria, la meccanizzazione di alcune fasi produttive, l’introduzione dei primi macchinari importati dall’estero, il tentativo di concentrare le varie fasi di lavorazione in un unico, grande, stabilimento, la conseguente costituzione della Società di Lanificio di Stia… sono solo alcune delle tappe in cui si articola la fiorente tradizione laniera paesana. In ossequio alla predetta tradizione e per ovviare al problema, sistematico, degli smottamenti, giustappunto il Siemoni, come si legge anche nel volume L’arte della lana in Casentino, ideò un ponte-canale sorretto da diciotto arcate, alte in media sui 12 metri, che, attingendo al torrente Staggia, avrebbero portato acqua agli stabili prontamente riattivati.
L’opera, completata con un’idonea briglia posta a monte, la pescaia o diga del Pastinello, che serviva a convogliare sull’acquedotto l’energia idraulica, salvò dalle frane, grazie alla costruzione dei suoi basamenti, persino la sovrastante strada comunale. Insomma, il Siemoni riuscì ad ottemperare ad una situazione stagnante con un’ardita e funzionale opera di ingegneria idraulica: quando si dice smuovere le acque di nome e di fatto! Nei primi tempi il cosiddetto berignolo ad archi alimentò probabilmente una ruota semplice, una sorta di ritrecine, deputata a trasmettere il movimento alle prime macchine tessili che, nella nostra zona, avevano sostituito il lavoro manuale; in una seconda fase ci fu un ammodernamento con la costruzione di una grande ruota idraulica a cassette in legno che sviluppava energia pari a quaranta cavalli e che, per mezzo di trasmissioni teledinamiche, faceva funzionare anche le strumentazioni del Lanificio. Si tratta dunque di un’opera maestosa, elegante ed ingegnosa, un’opera che fa parte della nostra Storia locale sotto molteplici aspetti, un’opera che tuttavia versa in un grave stato di abbandono, logorata dal tempo e dall’incuria.
Ed è un vero peccato, ancor più “capitale” qualora se ne considerino, oltre alle finalità pratiche avute negli anni addietro, le più “intrinseche” caratteristiche costruttive: il ponte canale è stato realizzato in pietra con bozze rettangolari lavorate in modo semplice ma “a regola d’arte” e reperite lungo il fiume se di piccole o medie dimensioni, dalle cave dei luoghi vicini se di maggiore entità; a tale proposito si narra che il Siemoni facesse venire dalle tenute granducali dei bufali maremmani per trasportare dai monti i giganteschi conci in pietra usati nella costruzione del monumentale acquedotto. Il muraglione di base, ancor oggi ben conservato, è situato sulla riva destra dello Staggia in prossimità del greto del fiume ed è strutturato ad hoc con la tipica pendenza del barbacane o contrafforte. Le misure dell’opera non sono facilmente ricavabili perché il luogo è quasi inaccessibile ed in alcuni punti c’è pericolo di crollo ma si può affermare che, in origine, la lunghezza del canale era di 230-250 metri circa.
Alla base di alcuni pilastri sono stati ricavati dei tunnel, forse con lo scopo di raccogliervi degli attrezzi, forse per permettere il passaggio verso la presa dell’acqua nei punti in cui il terreno franava addosso ai pilastri. Le pietre angolari che compongono gli archi sono ben lavorate, la faccia laterale ha figura trapezoidale mentre la parte sottostante ha figura rettangolare; sempre a proposito di pietre va detto che alcune di quelle delle porzioni di muro esposte a nord, quindi all’erosione più aggressiva degli agenti atmosferici, si sono distaccate, così come la parte esterna di talune arcate risulta assai deteriorata a causa di qualche cuneo che si è gradualmente sbriciolato ed ha ceduto sotto il peso causando il crollo. D’altronde, in tema di mancata manutenzione dello storico manufatto, parliamo di un acquedotto che, purtroppo, in parte non esiste più essendo stato demolito nel 1991 per costruire una nuova briglia a valle.
E quel, non poco, che resta? Andrebbe salvaguardato e valorizzato anche perché finora non è stato così. Eppure il piccolo grande briciolo di Storia che si inerpica nei pressi della Tintoria meriterebbe ben altra considerazione trattandosi di un’opera di ingegneria unica, con soluzioni architettoniche eleganti e raffinate, una struttura arcigna e solida e degli espedienti tecnici molto ingegnosi e al limite della realizzabilità se si considera l’epoca e il luogo disagiato della costruzione.
Sarebbe interessante valutare la quantità di energia elettrica prodotta in un anno se il berignolo ad archi riprendesse a funzionare ma sarebbe altrettanto stimolante ed auspicabile una conservazione dell’acquedotto anche solo per osservare, e quindi studiare, opere realizzate anni addietro con una maestria che non andrebbe dispersa nei rivoli del tempo, in modo tale da dare sostanza a termini spesso “svuotati” come archeologia industriale o cultura tecnica oltre che storica. D’altra parte, con lungimiranza e determinazione, smossero le acque gli uomini del 1800: forse sarebbe il caso che, pungolato dalla dignità della memoria, facesse altrettanto l’uomo degli anni 2000.
(tratto da CASENTINO2000 | n. 287 | Ottobre 2017)