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sabato, 20 Aprile 2024

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C’era una volta il Casentino… nel 1837

di Francesco Benucci – C’era una volta, in un paese lontano… quello che sembra il tipico incipit di una fiaba, cela una verità diversa ma, al contempo, ancor più affascinante se vista in un’ottica casentinese. Infatti, le ammalianti premesse, non schiudono al dipanarsi, sulla pagina, di orchi, principesse e draghi, quanto piuttosto ci conducono per mano tra castelli, personaggi e aneddoti della nostra vallata, che si rivela essere il paese menzionato nella celebre formula di apertura, un paese lontano, sì, ma dal punto di vista temporale. E allora, chiudete gli occhi e immaginate di riaprirli nel 1837, nel Casentino di quasi 200 anni fa, incastonato nel Granducato di Toscana, con l’Italia ancora lontana dal proporsi come realtà concreta della nostra penisola.

La macchina del tempo utilizzata per tale salto nel passato è il Calendario Casentinese per l’anno 1837, gelosamente custodito da Laura Benucci insieme ad altre edizioni successive, un piccolo opuscolo, recante le tracce di un’età veneranda e, proprio per questo, ancor più prezioso custode di quella memoria che, da buona maestra di vita, inanellando eventi, usi, costumi, errori e persone, dovrebbe accompagnare ogni singolo passo del genere umano. Già la premessa del suddetto libriccino, contenente dei cenni topografici, storici e biografici sul nostro territorio, si rivela una preziosa miniera di informazioni e curiosità: veniamo così a sapere che il Casentino era “intitolato modernamente” Valdarno Casentinese, che la sua estensione, lineare, di miglia 18, veniva considerata dal Falterona a Santa Mama e che, a causa di una natura inospitale, ai tempi dei Romani non fosse “in niuna considerazione” e che alcun popolo, di conseguenza, vi prendesse domicilio. Interessante anche quanto riportato a proposito della toponomastica: il nome della vallata, prima Terra Passumena, poi Clusentinum, deriverebbe, più che dal fatto essere un luogo chiuso da alti monti (ipotesi a cui comunque si accenna), dalla figlia di un re etrusco, tale Clusa, che l’avrebbe battezzata con una scelta “autobiografica”; vengono poi citati i borghi di Porciano, Papiano, Ortignano, per testimoniare come le suddette diciture sarebbero da attribuirsi a famiglie che, in quelle comunità, avrebbero vissuto: Porcia, Papia, Ortinia; da segnalare altresì il genere femminile del monte più importante della vallata, per cui leggiamo “monte della Falterona”.

Segue l’elenco delle principali Terre (leggasi: comuni), con tanto di breve descrizione, numero di abitanti e… di parrocchie. Poppi, con le sue 4660 anime, viene indicato come capoluogo di tutto il Vicariato nonché residenza del Governo della Provincia e, parimenti, zona “nobile e primaria collocata in amena posizione”, Bibbiena, ancora “in fasce” (4250 ab.) rispetto alla popolazione odierna, è “gaiamente situata sopra ridente colle”, Stia e Pratovecchio risultano “ambedue amenissime”, mentre di Castel S. Niccolò, “volgarmente chiamato Strada”, si mette in evidenza il forte e antico Castello. Successivamente vengono passati in rassegna gli abitati consistenti in “borgate e Castella” e situati in regione montuosa: Montemignaio, Raggiolo, Ortignano, Chitignano, Chiusi, Castelfocognano, Talla. La popolazione casentinese, circa due secoli fa, sommava 26.930 abitanti, oggi ne conta quasi il doppio considerando pure Subbiano e Capolona, che in questo ancestrale calendario erano evidentemente inclusi “nell’adiacente agro Aretino”.

Il territorio è quindi elogiato perché ridente, per le alpestri sommità, per la solitudine e l’orrore delle sue foreste, per le acque minerali e per la celebrità degli Eremi: alla luce di queste osservazioni ottocentesche, il tempo sembra essersi fermato e, in parte, questa non pare un’eventualità sfortunata, anzi. L’autore procede in seguito, con giustificato orgoglio, ad annoverare i molti e valenti uomini (alcuni celebri come Bernardo Dovizi, Bernardo Tanucci, Guido d’Arezzo, “che l’origin sua trae di Talla”, altri a noi meno noti) a cui il Casentino “diè vita”, dagli artisti a coloro che si distinsero per valore militare, senza dimenticare le personalità emerse nell’ambito delle ecclesiastiche dottrine: ben due pagine di nomi recanti impresse piccole grandi vicende che vanno a comporre l’irrinunciabile mosaico della Storia.

Contemporaneamente, protagonista in una vallata primariamente, ai tempi, rurale, non poteva che essere, di concerto con gli esseri umani, una “immensa quantità d’armenti”, con in prima fila (notare le lettere maiuscole) “la Pecora, il Cavallo ed il Bove”. Accanto ad essi, viene evidenziato come tutte le piante di alto fusto, eccetto l’ulivo, prosperino nel nostro territorio, come non manchi ogni sorta di cereali e come dagli ottimi vigneti si ricavi un vino che non teme il confronto con quello del Chianti. Insomma, alla faccia di produttori più rinomati e magari del granduca stesso, uno spirito di sana concorrenza albergava nei nostri avi. Nondimeno era presente altresì una certa vena autocritica come palesa, pur nel contesto di pregevoli pratiche agrarie, l’accento posto su “inveterati abusi mantenuti nello spirito dei Coloni”, abusi non meglio precisati ma che, subito dopo, vengono destinati a progressiva sparizione in virtù dell’esperienza.

E una volta accennato al fatto che in Casentino la temperatura è mediamente più bassa rispetto al clima fiorentino di circa 3 gradi, l’autore si concentra su quello che oggi chiamiamo settore secondario e lo fa in un’epoca in cui le evoluzioni in tale campo, provenienti dall’Inghilterra, non erano giunte da molto nella nostra penisola; eppure, a dispetto di previsioni forse tendenti a dipingere una vallata esclusivamente agreste, lo scrittore rivendica una certa attività, scandendo poi i dettagli di una realtà incoraggiante: dal faggio si ricavavano utensili che tutta la Toscana usava particolarmente nelle faccende domestiche, dall’abete si ottenevano vasi vinari che avevano fortuna anche al di fuori del Granducato, erano frequenti gualchiere, conciapelli, fabbriche di cappelli, tintorie, cartiere, fiere e mercati; soprattutto risultavano “in istato d’incremento” i lanifici, che, nel 1837, erano stati recentemente istituiti con l’apporto di meccanismi e processi più accreditati: è la rivoluzione industriale, bellezza. E prima che seguano minuziosi approfondimenti, con tanto di tabelle esplicative, sulle singole comunità della vallata (ogni edizione dell’opuscolo ne prende in esame alcune) e il calendario vero e proprio, questo quadro generale del Casentino di 200 anni fa, si conclude con l’auspicio che una terra così ubertosa, ossia fertile e produttiva, e un popolo talmente industrioso, colto ed attivo possano elevarsi grazie alle paterne cure di un provvido governo: passano i secoli, cambiamenti sempre più vorticosi ci travolgono, si avvicendano generazioni diversissime sotto molteplici aspetti, eppure un filo condiviso di vizi e virtù, di speranze e timori, di un sentire comune, ci lega alla nostra storia, al nostro territorio, alle nostre radici.

E magari un viaggio nella memoria, suggerendoci da dove veniamo, può indicare proprio la direzione, futura, da prendere.

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