di Sefora Giovannetti – Ad oggi l’unica scuola che mantiene l’intento di non utilizzare voti rimane il Liceo Morgagni di Roma. Altre scuole hanno tentato un tale esperimento senza però ottenere risultati tangibili. Il voto da sempre è una certezza, un’istituzione della quale difficilmente facciamo a meno. Leggendo poi un articolo della giornalista Leganza sull’organizzazione di tale Liceo, salta all’occhio il punto di vista decisamente critico. Vediamo meglio: nell’articolo si legge come evitare il voto sia una scorciatoia, una modalità che permette ai ragazzi di non affrontare la vita di petto. Si dice che questa modalità sia sin troppo delicata e che imponga un atteggiamento verso i ragazzi che non li offenda, non li turbi più di tanto. Quasi a voler inneggiare agli aspetti più rudi della vita: le delusioni, gli scontri, i turbamenti come unici educativi.
Occorre a mio parere dover fare chiarezza e perciò indietreggiare di qualche passo. Occorre porsi alcune domande che stanno alla base dell’insegnamento e quindi della scuola. Qual’é il compito che deve svolgere un insegnante? Forse quello di offendere, di scontrarsi, o ridimensionare sempre le aspettative dei ragazzi? L’insegnante deve impugnare l’arma del voto per impaurire i ragazzi? L’educazione passa da questo? Da esperienze al limite? Stile “ragazzi di strada”? Non sono d’accordo, è bene distinguere l’iter consuetudinario dall’incidente di percorso. È vero che all’interno della scuola, durante le lunghe mattine passate assieme si può incorrere in discussioni e anche litigi, ma queste devono essere parentesi, momenti isolati di una quotidianità diversa. L’educazione può, anzi deve passare da altre strade meno pirotecniche. Non è detto che un allievo che piange per un quattro sia molto più formato di un altro. La delusione di una aspettativa è sempre educativa? Non è detto.
E allora ben vengano nuove modalità di approccio alla didattica. Ben venga il superamento del voto. Ovvio che un tale cambiamento non verrà sostituito dal nulla, cioè dal: se vuoi fare fai, altrimenti chi se ne frega. Ma da una struttura didattica diversa, alternativa alla precedente. È possibile verbalizzare il risultato di un lavoro? Penso di si. E ritengo sia alquanto più proficuo in quanto permette ai ragazzi una comprensione diversa e più esaustiva di ciò che hanno svolto.
Intanto le parole sarebbero rivolte al compito eseguito e non al ragazzo, onde evitare l’antipatica associazione del numero con l’identità personale. Nessuno è un cinque, tutt’al più l’allievo ha svolto un lavoro non sufficiente. Ritengo che una tale modalità realisticamente renda i ragazzi ben più responsabili. Una cosa è subire il voto come una scure impietosa, altra è lo sviluppo di una buona metacognizione. Comprendere quindi come ho lavorato, se possiedo un buon metodo di studio, se posso migliorare è sicuramente un’attività proficua.
Sembra quasi che si richieda alla scuola un’attività che crei tensioni, acredini, a questo punto torniamo a portare a scuole le bacchette e i ceci. Visto che siamo nel flusso nostalgico non so dove potremo arrivare. Ma come siamo riusciti a superare determinati tipi di “educazione” saremo altrettanto bravi ad inserirne di nuovi. Oltretutto sembra alquanto opinabile il fatto che coloro che propongono il mantenimento di metodi rudi, siano poi quelli che attualmente la scuola non la stanno frequentando, affermando anche la bellezza dei quattro educativi. Bene, se tale è il loro punto di vista che applichino questi metodi così ipercritici nei loro ambiti lavorativi e lascino liberi i ragazzi di essere sereni di frequentare la loro scuola.
SEFORA GIOVANNETTI Docente scuola secondaria di primo grado Rassina