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sabato, 14 Dicembre 2024

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Ci salveranno i girasoli?

di Marco Roselli – Alzi la mano chi non ha mai scattato una fotografia ai girasoli fioriti! La pianta occupa la Toscana ormai da diversi decenni contribuendo non solo alla produzione agricola ma anche alla caratterizzazione paesaggistica. La bellezza di un campo di girasoli con lo sfondo del Castello di Poppi, della città di Arezzo o di Cortona non sfuggono a nessuno, tanto meno ai set cinematografici o ai cataloghi dei grandi studi fotografici. Le pianure e le colline della nostra provincia si tingono di giallo arancio creando orizzonti irresistibili, soprattutto al tramonto, quando i cromatismi si fondono.

La coltura Il girasole (Helianthus annuus) è una pianta erbacea annuale che appartiene alla famiglia delle Asteraceae. Il nome latino deriva da due parole greche ‘helios’ (sole) e ‘anthos’ (fiore), in riferimento alla tendenza di questa pianta nel far girare il bocciolo verso il sole. Questo comportamento è noto come eliotropismo. La parola annuus indica il ciclo biologico che è annuale. Anche il nome comune italiano (girasole) deriva dalla rotazione dei boccioli in direzione del sole. Il girasole entra ottimamente nella rotazione agraria in quanto segue il grano come coltura da rinnovo, ma è in grado di sfruttare l’effetto positivo dei residui di una pianta ‘preparatrice’, come ad esempio il mais. La coltura ha un ciclo primaverile-estivo molto breve e lascia il terreno in buone condizioni di fertilità. Si raccoglie tra agosto e settembre, in base al momento in cui è stato seminato. La raccolta inizia quando si verifica la caduta spontanea degli involucri fiorali portati dal frutto, il viraggio al bruno della calatide e la completa secchezza delle foglie basali. Una buona produzione di acheni si aggira intorno a 20-25 quintali ad ettaro. In condizioni molto favorevoli di può arrivare a 35-40 quintali. Da 100 kg di semi di girasole si ottengono 35-40 kg di olio, con un buon valore alimentare ed una notevole attitudine ad essere impiegato come combustibile per motori per autotrazione in luogo di benzina e diesel.

Emblematica la vicenda dei biocarburanti in Brasile Mai come in questo periodo la discussione attorno alla possibilità di utilizzare alternative agli idrocarburi, benzina e diesel, è divenuta tanto accesa. L’aumento vertiginoso del prezzo del petrolio, la necessità di ridurre la dipendenza economica dai paesi produttori, nonché la crescente coscienza ecologica, che spinge i singoli individui e le aziende a raccogliere maggiori informazioni sul tema, sono alcuni dei fattori che stanno spingendo il mondo verso cambiamenti radicali. Nel tentativo di pianificare una risposta efficace e convincente alla crescente dipendenza dal petrolio, sta aumentando significativamente anche l’interesse dei governi verso fonti alternative e rinnovabili, purché ecosostenibili, non solo dal punto di vista dell’inquinamento, ma anche della produzione su larga scala e dei possibili effetti sui mutamenti del territorio. I paesi interessati a questi processi stanno rivolgendo l’attenzione a diversi procedimenti per la fermentazione delle biomasse e l’ottenimento di olii combustibili (soia, colza, girasole); in questo contesto è interessante notare come i paesi più “ricchi” in termini di idrocarburi, siano anche quelli all’avanguardia in questo tipo di ricerca.

A questo punto viene naturale domandarsi: “esiste un paese nel quale i carburanti alternativi al petrolio vengono utilizzati al punto di determinare una significativa riduzione della domanda interna di veicoli mossi a benzina o a diesel?” A dire il vero, esistono diverse nazioni in cui certe tecnologie vengono utilizzate. E’ questo il caso della Svezia e gli Stati Uniti, dove, può sembrare un paradosso, la possibilità dei privati di sviluppare filiere è molto libera, tanto da esserci concessionarie che commercializzano, ad esempio, automobili ad aria compressa. Tuttavia l’esempio più significativo è quello del Brasile, una nazione dove si sono ottenuti i risultati più importanti sia in termini quantitativi che qualitativi (% di mezzi di trasporto alimentati da combustibili alternativi e ottima qualità dell’aria, risultato certificato addirittura dalla Nasa). Questi successi sono stati ottenuti anche attraverso una politica lungimirante nell’utilizzo dell’etanolo e degli oli vegetali, nonostante si tratti di una nazione che ha immense risorse naturali e che è praticamente autonoma dal punto di vista energetico.

L’etanolo: una storia antica L’alcool etilico si ottiene a partire da biomasse per mezzo di un procedimento di fermentazione degli zuccheri ricavati dalla barbabietola, dalla canna da zucchero ma anche dall’ uva e dal granoturco. L’etanolo possiede un’ampia varietà d’impieghi, sia industriali che quotidiani, ma il suo utilizzo come carburante per autotrazione è quello che ha fatto concentrare su questo prodotto una crescente attenzione. Per la verità, l’idea di utilizzare etanolo al posto dei carburanti a base di idrocarburi è tutt’altro che recente, dato che è nata praticamente insieme all’automobile, essendo l’alcool meno infiammabile e meno tossico della benzina o del gasolio. Per molti anni si è lavorato sull’adattamento dei motori per consentirne l’utilizzo in maniera affidabile, fino a giungere all’elaborazione del motore Flex (a benzina e ad alcool). Sempre in Brasile, già da molti anni, specifici programmi governativi miranti alla sua adozione e al contenimento del prezzo, hanno portato alla decisione di fabbricare vetture Flex su larghissima scala. Negli Stati Uniti, dove il motore Flex è stato inventato, l’alcool viene prodotto dal mais, mentre in Europa deriva dalla fermentazione della barbabietola. L’alcool è un ottimo carburante per autotrazione poiché presenta un livello di ottani superiore alla benzina, ma brucia ad una pressione inferiore e non contiene zolfo, comportando pertanto ridotte emissioni inquinanti.

Purtroppo la sciagurata politica di dismissione degli zuccherifici avvenuta in Italia negli anni novanta (chiusi 16 zuccherifici su 19!) ha di fatto tagliato le gambe a questa utilissima filiera. Attualmente, nel nostro Paese, la maggior parte del mercato è controllata da tre giganti stranieri, il primo dei quali è la multinazionale tedesca Sudzucker, che vanta 31 siti in tutta Europa.

Il secondo padrone dello zucchero in Italia è la francese Cristal Union, acquisitrice di Eridania, che con 10 stabilimenti nel mondo sforna 2 milioni di tonnellate all’anno di prodotto. Sempre d’Oltralpe è la multinazionale Tereos, che detiene 45 siti industriali in 13 paesi ed è il primo produttore francese con 3,7 milioni di tonnellate, per un giro d’affari di 5 miliardi di euro. Eppure, anche in provincia di Arezzo è esistito per moltissimi anni lo zuccherificio di Castiglion Fiorentino, il quale, oltre a fornire una produzione di alta qualità, garantiva il mantenimento di una economia importantissima che faceva ospitare la coltura della barbabietola nelle aziende agricole da Arezzo a Grosseto fino ad arrivare all’Umbria.

Il biodiesel è perfettamente compatibile con i motori per autotrazione Il biodiesel è un carburante per autotrazione di origine vegetale (può essere ricavato dal girasole, dal ricino, dalle arachidi e altre piante oleose). Nel paese sudamericano di cui abbiamo parlato, l’impiego del biodiesel si è sviluppato da decenni, parallelamente a quello dell’etanolo, con risultati eclatanti in termini di impiego. Il biodiesel può sostituire il gasolio per motori diesel o essere miscelato con esso in qualsiasi percentuale, essendo perfettamente compatibile con questo tipo di motori, che non richiedono alcuna modifica per il suo utilizzo. Possiede però il grande vantaggio di essere ecologico in quanto biodegradabile, rinnovabile, non tossico e privo di zolfo e composti aromatici. Secondo alcune ricerche, dalla sostituzione di un chilo di petrolio con un chilo di biocombustibile si ottiene una riduzione di tre chili di gas carbonico nell’atmosfera.

A costo di auto denunciarmi, confesso di essere stato uno di quelli che, una ventina di anni fa, metteva tranquillamente l’olio di colza (nella foto sopra, campi di colza) nel motore della Fiat Punto diesel. Miscelato al 50-60% l’automobile andava che era una meraviglia, poi, come spesso capita in terra italica, lo Stato ci mise gli occhi e dopo un po’ di buriana pensò bene di far alzare il prezzo ai supermercati, in modo da non renderlo più conveniente, tanta era (ed è tutt’ora) la fame di accise.

Non solo batterie al litio. L’opportunità dei contratti di filiera per il biodiesel in Toscana L’agricoltura toscana partecipa da protagonista alla sfida energetica del Paese perché ha messo in cantiere un progetto di recupero di oltre 350 ettari di terreni agricoli abbandonati per destinarli alla coltivazione di girasoli “energetici” da trasformare in biodiesel.

A rendere possibile questa progettualità sono stati i contratti di filiera che, come dice il loro nome, sono accordi che vincolano tutti i soggetti, dai produttori agricoli primari fino all’agroindustria, con obiettivi specifici e condivisi. In questo caso, con la promozione di Coldiretti e Consorzi Agrari d’Italia, viene ad attuarsi una collaborazione tra ENI e BF (Bonifiche Ferraresi) per sviluppare nuove filiere ad uso energetico in Italia.

Il progetto punta, inoltre, a garantire l’accesso alla terra agli agricoltori e a introdurre tecniche e processi all’avanguardia, con l’obiettivo di contribuire a ridurre le emissioni di CO2 nei settori dell’agricoltura e dei trasporti. Si tratta di una iniziativa che, secondo i promotori, contribuirà a riportare alla produzione molti terreni in stato di abbandono. Dai primi risultati emerge come grazie ai contratti di filiera è stato possibile assicurare alle imprese agricole un prezzo molto più vantaggioso e remunerativo per ogni quintale ritirato e sono stati valorizzati centinaia di ettari di terreno.

La sfida per l’impiego di carburanti molto meno inquinanti rispetto ai derivati del petrolio è in pieno svolgimento e potrà essere vinta solo grazie ad un insieme di più soluzioni; il rischio di affidarsi ad una sola, quella delle batterie, peraltro monopolizzata da una unica nazione detentrice dei minerali rari, appare fin troppo densa di incognite.

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