Il governo Renzi/Verdini/Alfano ha rivenduto gli ultimi dati sull’occupazione come la testimonianza della riuscita delle proprie politiche del lavoro ed in particolare del Jobs Act: eppure i dati Istat e Inps raccontano un’altra storia. Cominciamo con l’Istat, la prossima volta finiremo con l’Inps…
Partiamo da quelli che sembrerebbero dare maggiormente ragione alle affermazioni del governo, e cioè l’ultimo bollettino dell’Istat sull’occupazione, uscito il 29 luglio e relativo al mese di giugno. Secondo l’Istat la variazione tendenziale, cioè l’occupazione a giugno 2016 rispetto a giugno 2015, registra un aumento di 329.000 occupati, passando da 22.452.000 occupati a 22.781.000: di questi 329.000, i lavoratori dipendenti sono 246.000 mentre 83.000 sono i lavoratori autonomi. Dei 246.000 lavoratori dipendenti in più, quelli “permanenti” sono 207.000. Dunque, posto che l’obiettivo (propagandato) del Jobs Act era in particolare la creazione di occupazione dipendente a tempo indeterminato, l’aumento registrato è pari a poco più di 200.000 persone. Ovviamente quando parliamo di occupazione permanente, sappiamo che si tratta di una falsità e di una bugia: essendo l’obiettivo del Jobs Act la piena libertà di licenziamento, nessun contratto “a tutele crescenti” è a tempo indeterminato!
Si dirà tuttavia che 200.000 posti di lavoro in più non sono poco cosa: e invece lo sono, se raffrontati con la quantità ingentissima di risorse che sono andate alle imprese per la decontribuzione legata ai nuovi contratti…Risorse stanziate dalla Legge di Stabilità 2015 – non dal Jobs Act – per creare la vera e propria “bolla occupazionale” e poter così dimostrare la bontà delle politiche del governo. Come si ricorderà infatti la legge di stabilità 2015 ha messo a disposizione, per i nuovi contratti stipulati entro quell’anno e per le conversioni di contratti precari nel “contratto a tutele crescenti”, 8060 euro di riduzione annua dei contributi per un periodo massimo di 3 anni, decontribuzione poi ridotta dalla successiva legge di stabilità 2016, a 3250 euro annui per due anni.
Il Prof. Piergiovanni Alleva ha denunciato anche recentemente la grande truffa che questi contributi hanno rappresentato, in particolare per tutte le trasformazioni in contratti a tutele crescenti di quei contratti (a termine, di apprendistato o co.co.pro.) che 9 volte su 10 avrebbero dovuto essere perseguiti in quanto irregolari…Ma anche a voler prescindere da questo dato rilevantissimo (dagli 8 ai 10 miliardi “regalati” dall’Inps), quanto è costata l’occupazione aggiuntiva “creata” dal Jobs Act? Una simulazione estremamente puntuale dei costi della decontribuzione (formulata nelle ipotesi di diversa durata delle assunzioni), ha fissato un costo variabile tra i 14,6 e i 22,6 miliardi nel triennio. Prendendo l’ipotesi intermedia siamo a 18,5 miliardi di costo nel triennio, oltre 6 miliardi di euro su base annua! (stima peraltro confermata dalla relazione tecnica alla Legge di Stabilità 2016). Dunque ogni posto di lavoro “creato” con il Jobs Act – in realtà con la decontribuzione – è costato circa 30.000 euro. Un piano di assunzioni dirette da parte dello stato avrebbe creato un numero maggiore di posti di lavoro…
Ma la politica di contributi alle imprese del governo non si è limitata a questo. Alle risorse specificamente dedicate alla decontribuzione del “contratto a tutele crescenti” vanno infatti aggiunti i 4,3 miliardi annui di taglio dell’Irap, altri 4 miliardi nel triennio 2015-2017 per una serie di provvedimenti vari, il super-ammortamento per gli investimenti (580 milioni per il 2016, 1 miliardi negli anni dal 2017 al 2021), la riduzione dell’Imu sugli imbullonati (che da sola vale quasi il doppio delle risorse stanziate per il rinnovo del contratto di 3 milioni di lavoratori pubblici), per un totale di 12-13 miliardi di risorse aggiuntive distribuite a pioggia alle imprese nel 2016 e che ad oggi hanno complessivamente prodotto un aumento di poco più di 300.000 occupati…
Inoltre la disoccupazione aumenta rispetto al mese precedente di 27.000 unità, per quanto in calo su base annua. Il governo in questo caso festeggia il fatto che cali il numero di inattivi e che dunque l’aumento della disoccupazione vada considerato come un aumento della quota delle persone che si sono messe a cercare un lavoro uscendo dalla condizione di inattività. Come si ricorderà infatti è censita come disoccupata ogni persona tra i 15 e i 74 anni che abbia effettuato almeno un’azione attiva di ricerca di lavoro nelle quattro settimane che precedono la settimana di riferimento e sia disponibile a lavorare (o ad avviare un’attività autonoma) entro le due settimane successive. I disoccupati continuano ad essere, a giugno 2016, poco meno di 3.000.000 di persone (2milioni e 983mila), il doppio del periodo pre-crisi!
Questo è tuttavia notoriamente un dato dimezzato rispetto alla disoccupazione effettiva. Almeno la stessa attenzione che viene dedicata al rapporto tra disoccupati ed inattivi andrebbe infatti riservata alle cosiddette forze potenziali di lavoro. Vengono infatti censite in questo modo le persone che anche se non hanno effettuato un’azione attiva di ricerca di lavoro, sarebbero disponibili a lavorare immediatamente (persone che evidentemente non cercano perché non sperano di trovarlo, un lavoro) e coloro i quali invece hanno effettuato una ricerca attiva ma non sono disponibili a lavorare immediatamente. Le forze potenziali di lavoro sono un numero altissimo nel nostro paese, sono costituite quasi tutte dalla prima categoria (non cercano ma immediatamente disponibili) e nel primo trimestre del 2016 hanno raggiunto il numero di 3 milioni e 441mila persone, con un aumento di oltre 50.000 unità rispetto all’ultimo semestre 2015. In sostanza i disoccupati effettivi sono quasi 6 milioni e mezzo…un’ecatombe!
Fausto Tenti (Segretario provinciale PRC Arezzo)