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venerdì, 29 Marzo 2024

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“Lo scherzo di Cacciaguerra”, seconda e ultima parte della novella casentinese

«…Lui mi disse di andare da una strega guaritrice di Moggiona. Presi la mia cavalla, la sellai e mi precipitai a quel borgo. La strega buona cominciò a fare i suoi riti con una corda … bisbigliava, sembrava che pregasse, ma lo faceva talmente piano che non si capiva nulla. Finito di armeggiare intorno alle sue cose, mi disse di andare a casa perché i maialini stavano già poppando. Ricordo che era l’ora quarta quando mi disse così. Dopo averle lasciato qualche spicciolo, andai curioso di corsa a casa e mia moglie mi fece notare che all’ora quarta la troia aveva smesso di stridere. Era andata a vedere i maialini ed erano tutti attaccati alle mammelle. Anche a me la strega disse di affiggere alla porta una carlina o mettere una scopa di saggina perché avrebbe tenuto lontane le creature malvagie».
Mentre Cacciaguerra continuava a stare in silenzio nel suo cantuccio, si continuò a parlare di queste cose fino a tardi, fino a che decisero di congedarsi da Daddeo.
Tornato a casa, Cacciaguerra tremava come una foglia e si calmò un pochino dopo che, entrato, ebbe acceso il lume, che si era fatto il segno della croce e controllato che non ci fosse nessuno. La notte non riuscì a dormire, un po’ per la paura, un po’ perché aveva, in senso buono, invidia nei confronti di quel Tinellaccio troppo coraggioso. Doveva trovare il sistema di diventare audace. Passò in bianco la nottata senza che gli venisse un’idea su cosa fare.
Qualche giorno dopo, parlando con un tale di Frassineta gli disse che un mago di nome Cavalcante, che abitava in Brancuta, era in grado di produrre delle pozioni che avevano del miracoloso. Queste servivano a centinaia di scopi. Le faceva per far passare il singhiozzo, per calmare le mogli un po’ troppo brontolone, per far diventare intelligenti quelli che non lo erano, per far passare la tosse canina ai bambini, per altre cose, ma anche per dare coraggio e forza a chi non ce li aveva. Questo interessò Cacciaguerra che drizzò le orecchie e chiese lumi. Sarebbe andato a trovare quel mago che abitava in quel casolare sperduto nel bosco tra l’Acquafredda e Frassineta. Forse, a quanto sembrava, non era vero quello che aveva detto Tinello e cioè che, chi non aveva coraggio non se lo sarebbe potuto dare … lui sarebbe andato dal mago per riuscire ad averlo.
Il giovane partì di buon’ora per essere abbastanza presto a casa del mago. Passò giù dall’Acquafredda e attraversò l’Archiano mettendo i piedi sopra i sassi rotondi che affioravano dall’acqua. Montò a Stradelli, dove si fermò a bere un bicchiere dal suo amico Giovannuzzo, poi continuò per la Brancuta. Dopo una mezz’oretta arrivò alla casa del mago Cavalcante. Lo trovò che si era appena alzato, anche da letto se era tardi, e stava facendo colazione. Quell’uomo, anche se sapeva fare cose miracolose, sembrava un cristiano qualunque. Pur avendo un nome imponente era piccolino di statura, macilento ed avrà avuto un’ottantina d’anni. Insomma era vecchio come lo sono tutti i maghi.
Cacciaguerra, dopo essere entrato e essersi presentato, esordì:
«Pagando, avrei bisogno del vostro aiuto».
«Dimmi, ma non parlare di compenso», rispose Cavalcante:
«Dimmi cosa ti serve e se posso ed è legittimo, vedrò di aiutarti».
Cacciaguerra tirò fuori tutto quel poco ardire che aveva e rispose:
«Sono una persona che ha paura di tutto. Gli amici mi prendono in giro. Se possibile, vorrei acquistare un po’ di coraggio. Un tale di Frassineta mi ha detto che voi avete degli intrugli miracolosi e forse ne avrete anche che facciano al caso mio».
«Si! Di uno che fa per te me ne è rimasto un paio di vasetti e te ne darò volentieri uno, tanto devo rifarlo fresco».
Riprese Cavalcante allungandosi verso una mensola sul muro per arrivarne uno. Poi continuò:
«Questo ti darà quel coraggio che cerchi, ma anche la forza di tre uomini. Sapessi quanti cavalieri illustri, aretini e fiorentini, ghibellini e guelfi, mandano qui i loro palafrenieri in incognito a prendere questa roba. In questo modo fanno bella figura nei tornei e nei combattimenti, ma non è merito loro, è tutto merito delle mie pozioni!».
«Come si usa questo intruglio?» disse Cacciaguerra indicando il vasetto.
Il mago di rimando rispose:
«È semplice! Quando avrai bisogno di avere coraggio prendi un cucchiaino di questa roba, lo devi sciogliere in un bicchier d’acqua e lo bevi tutto d’un fiato. Sarà molto amaro perché dentro c’è anche il fiele di cinghiale.
Tu bevi tutto e poi vedrai che ti abituerai al suo sapore e non ti sembrerà più tanto cattivo, specie per quello che otterrai. Fai come ti dico e ti sentirai capace di entrare nell’inferno per tirare la coda a Belzebù o andare ad un sabba di streghe e prenderle tutte a pedate e fare una focata delle loro scope».
Cacciaguerra, contento, prese il vasetto e consegnò al vecchio un paio di denari che si era tolto dalla scarsella legata alla cintura. Cavalcante che non voleva un compenso, un’offerta la gradì. Salutò e riprese la via del ritorno verso la Badia. Arrivato a casa, senza dir nulla ai suoi, ripose gelosamente in un armadio in camera sua il vasetto con l’intruglio. Lo nascose per tirarlo fuori quando avrebbe avuto un’occasione buona per usarlo. S’incontrava spesso con Tinello e Brunetto, ma anche se molto amico non confidò loro niente. In particolare non lo fece perché doveva dare una lezione a Tinello e stupirlo dopo averlo superato in coraggio.
Un brutto giorno, in quel di Badia, successe una disgrazia: Brunetto aveva preso un calcio da un mulo nel petto ed era morto. Sia Tinello che Cacciaguerra, i suoi migliori amici, rimasero sconvolti. Non si aspettavano una sciagura così.
Il pomeriggio, all’interno dell’antica chiesa di Badia Prataglia, fu allestita la camera ardente e i due amici di sempre presero l’impegno di vegliare il morto tutta la notte. I funerali si sarebbero celebrati il giorno dopo e Brunetto sarebbe stato seppellito nel cimitero davanti alla stessa chiesa come era in uso in quei tempi. Nel camposanto c’erano enormi croci di sasso e lapidi in pietra con tante scritte che elencavano quello che i poveri morti, come se fosse stato vero, avevano fatto in vita.
Dopo aver aggiustato il cadavere su di un catafalco in chiesa e lasciato alla cura dei suoi, Tinello e Cacciaguerra andarono a mangiare qualcosa e a cambiarsi per passare la notte a vegliarlo. Cacciaguerra, temendo di non aver coraggio, prese un cucchiaino e mezzo dell’intruglio che gli aveva dato Cavalcante, lo mise in un bicchiere d’acqua come gli aveva detto il mago e lo bevve. Quel bicchiere d’acqua era amarissimo. Lo mandò giù facendo un po’ di boccacce, poi il sapore disgustoso cominciò ad attenuarsi. Si sentiva un leone o meglio un cinghiale. Si sentiva la forza di spaccare il mondo e il coraggio di una tigre.
Cacciaguerra si vestì a lutto, tutto nero e similmente fece Tinello. I due si ritrovarono nei pressi del cimitero, davanti alla chiesa quando già cominciava a far buio. Cacciaguerra si sentiva strano come non mai e, pur trovandosi in mezzo alle lapidi in pietra del cimitero, non aveva paura.
Evidentemente il miscuglio del mago Cavalcante funzionava!
In chiesa il morto era composto con i piedi verso l’altare e con le braccia incrociate sul petto. Sopra la mensa dominava un enorme crocifisso, ai lati del morto c’erano quattro ceri che a malapena rompevano il buio. Non si vedeva quasi niente per l’ampiezza della chiesa. I due si accomodarono su due sedie ai lati del baldacchino tutto coperto di velluto nero, ricamato d’oro con teschi e femori incrociati, ricami che brillavano leggermente alla luce fioca delle candele. I due parlottavano tra loro, prima sottovoce poi, man mano che il tempo passava, il parlare diventava un discorrere normale perché, senza accorgersene, prendevano confidenza con quel luogo lugubre e quasi buio.
Intanto Cacciaguerra meditava; riteneva che fosse giunto il momento di dare una lezione a Tinello e fargli vedere che, in fondo, in fondo, anche lui era un comune mortale come tutti.
Verso la mezzanotte Cacciaguerra disse:
«Sarebbe bello poter avere una brocca di vino. Con tutto questo parlare mi si è seccata la lingua».
Riprese immediatamente Tinello:
«Hai ragione, perché non vai a comprarla?». Cacciaguerra ribadì:
«Senti mi dispiace, ma io non ho coraggio di passare attraverso il cimitero a quest’ora. Ci saranno sicuramente dei fantasmi in giro e tu sai che io ho paura», poi continuò:
«Vacci tu che io rimango qui. Qui mi sento protetto dal Crocifisso e sono certo che in questa chiesa non è mai entrata una creatura malvagia o il maligno. Poi mi farà compagnia il nostro Brunetto anche se morto».
Tinello capì e annuì. Mentre usciva, i suoi passi rimbombavano nella grande chiesa vuota. Passò attraversò al cimitero e si diresse all’osteria che si trovava un centinaio di metri più avanti, proprio lungo la via che portava in Romagna. L’ostessa, la Berta, riempì una brocca del miglior vino che aveva, la consegnò a Tinello con due bicchieri di coccio, fece il conto e l’uomo pagò.
Intanto la Berta trattenne un po’ Tinello per sentire come era successa la disgrazia in cui era morto Brunetto e come erano andate esattamente le cose, come l’aveva presa la famiglia e se Cacciaguerra, noto per la sua pavidità, ne aveva risentito.
Dopo poco parlare, Tinello si ricordò che Cacciaguerra era solo in chiesa ed ebbe un sussulto e disse:
«Mamma mia, quello è solo, speriamo che non sia morto di paura. Berta fammi andare».
L’uomo con la brocca in una mano e i due bicchieri nell’altra, si precipitò in chiesa. Come ebbe spinto e aperto il pesante portone, facendolo con un fianco, notò che due dei quattro ceri si erano spenti e perciò il buio era quasi totale. Non si vedeva quasi niente. Si avvicinò al catafalco facendosi guidare dal lume delle candele e intravide sulla sedia la figura di Cacciaguerra che dormiva. Dormiva pure il morto, ma quello si sapeva essere un sonno eterno. Tinello si porto ai piedi del caro estinto, volgendo le spalle all’altare e appoggiò i bicchieri in fondo al catafalco vicino ai piedi del morto. Li riempì tutti e due, poi prendendone uno lo porse a Cacciaguerra che, seduto, sembrava dormisse ancora. Pareva che non si fosse accorto che l’amico era tornato e allora Tinello a voce piuttosto alta per svegliarlo gli disse:
«Prendi, bevi. Ehi bevi!».
Evidentemente Cacciaguerra dormiva molto profondamente perché non rispose. Allora Tinello ripeté:
«Prendi bevi, lo vuoi o no!» e con la mano libera fece per toccare la spalla dell’amico addormentato.
D’improvviso il morto sdraiato nel catafalco si alzò a sedere e disse:
«Se quel bicchiere non lo vuole lui dallo a me!»
Tinello lasciò cadere il coccio dalla mano e urlando uscì di chiesa come un fulmine, buttando in terra i candelieri e urtando le panche laterali. Anche la Berta lo sentì gridare come un pazzo mentre correva verso casa. Cacciaguerra, si era messo al posto del morto e il morto lo aveva messo a sedere nella sedia.
Da quel giorno Tinello, al quale improvvisamente erano diventati tutti i capelli bianchi, non si vantò più del suo coraggio, mentre Cacciaguerra crebbe nella stima e nella considerazione del popolo di Badia.
Questo dimostra che non sempre chi viene considerato piccolo e dappoco non possa superare quello che tanto si stima e si loda se, chi è ritenuto di poco conto, è capace di attendere e sa usare l’intelletto.
Morale: Come avviene per le volpi che rimangono al laccio, anche i più furbi qualche volta possono rimanere in trappola.
FINE

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