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martedì, 15 Ottobre 2024

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Il valore del tempo

di Mauro Meschini – Ormai non passa giorno in cui non capiti di leggere, ascoltare, vedere notizie e discussioni in merito alle difficoltà che le aziende stanno affrontando nel reperire lavoratori. A questo proposito potremmo forse fare intanto una distinzione: tra le difficoltà dovute alla mancanza di persone in possesso dei necessari requisiti o della preparazione richiesta per svolgere un certo lavoro, e tra quelle derivate dal rifiuto e dal disinteresse dimostrato verso lo svolgimento di determinate mansioni.

In entrambi i casi il risultato rimane comunque lo stesso, le persone restano senza lavoro, i posti non sono coperti lasciando in difficoltà le aziende. A questo poi si aggiunge il fatto che, sempre più spesso, anche nel settore pubblico, capita che chi in un primo momento ha accettato un posto poi si dimetta, molte volte senza avere una vera alternativa.

Sembra un paradosso, soprattutto se pensiamo a qualche decennio fa e al valore attribuito al lavoro e, in particolare, al «posto fisso». Certamente i nostri nonni non sarebbero per niente d’accordo sulle scelte che vengono fatte oggi, ma davvero in questi atteggiamenti tutto è negativo? Davvero è tutta colpa del poco spirito di sacrificio e della ricerca del guadagno facile? Davvero non ci sono altri motivi che generano questi comportamenti?

Ovviamente ognuno potrà essersi fatto una propria idea e credo che già questo sia un elemento positivo perché se riuscissimo a confrontarci e riflettere su quello che sta accadendo, che ci sta accadendo in quanto immersi fino al collo nella realtà di oggi, sarebbe un ottimo passo avanti per provare a capire chi siamo, cosa vogliamo, cosa ci interessa, cosa desideriamo, cosa vorremmo veramente fare nella vita.

Provando a proporre un punto di vista e qualche considerazione ci viene da dire che da qualche decennio non è che, soprattutto in Italia, si sia fatto molto per dare valore, importanza e prestigio al lavoro nel suo complesso. Pensiamo poi allo svilimento di determinate attività, che poi in casi di emergenza si rivelano fondamentali, come la preziosa opera degli addetti alle pulizie che durante i momenti più acuti della diffusione del Covid-19 è stata fondamentale, ma già oggi tutti lo abbiamo dimenticato.

Più in generale ci sembra che i messaggi che sono stati lanciati, i consigli forniti, gli indirizzi proposti, anche nelle ormai diffuse ad ogni livello attività di orientamento scolastico, formativo o professionale, sono sempre più stati finalizzati a dare l’idea di un futuro in cui trottole impazzite avrebbero dovuto sbattersi da qua a là per prendere al volo occasioni di impiego e di collaborazione, il tutto utilizzando modalità di approccio con gli altri e con i diversi contesti contraddistinte da capacità di adattamento, flessibilità, capacità di lavoro in team.

Come tutti anche a noi è capitato di dover fare i conti con tutto questo, in più per molto tempo ci siamo trovati anche a proporre in qualità di tutor o decente attività di orientamento. Ripensando oggi a quello che fino a non molto tempo fa ci è capitato di fare, siamo fortemente portati a riflettere sulla reale validità di quei messaggi e quei consigli. Questo soprattutto vedendo quello che poi si è sempre più accentuato in questi ultimi anni: la sempre minore considerazione per il lavoro, la riduzione dei riconoscimenti dal punto di vista economico, le richieste sempre più pressanti e invadenti relative al tempo e alla disponibilità.

Insomma, se oggi non si attribuisce più al lavoro e al ricoprire il ruolo di lavoratore lo stesso significato che veniva attribuito in passato forse più di un motivo ci sarà?

A nostro avviso, e semplificando, ci viene da dire che alcune ragioni si possono trovare nella scelta di fondare il sistema economico sul guadagno e non sulle persone che sono il perno su cui questo stesso sistema si fonda. Certo non ci sono più le fabbriche e le masse di lavoratori al loro interno, ma ci sono comunque milioni di persone che sono in grado, nei modi luoghi più diversi ugualmente fondamentali, di svolgere quelle mansioni che permettono al sistema di andare avanti.

Si è pensato e si continua a pensare che si possa prescindere da quello che queste persone vogliono e desiderano, costruendo contesti e modalità di lavoro (ci vengono in mente i call center, i rider…) che a nostro avviso offrono evidenti segni di questo approccio.

Se è così, se si è spinto in una certa direzione, se si è pensato di raccontare alle nuove generazioni, e non solo, una «nuova novella», forse non ci dobbiamo lamentare se sono proprio i destinatari di quei messaggi che, in qualche modo, possono averli riadattati e portati alle estreme conseguenze. Allora se tutto deve essere flessibile che lo siano anche le aziende, che siano loro che si adattano alle esigenze delle persone; se chiedono più tempo che anche loro siano disposte a dare tempo, tempo a ognuno, da vivere nel modo che ritiene più opportuno.

Forse è un modo estremo di vedere la realtà, ma se davvero si ribalta il punto di vista, mettendo al centro le persone e non il lavoro da portare avanti, lavoro che poi quelle stesse persone non sentono quasi mai proprio perché gestito e calato dall’alto, in qualche modo si potrebbe riuscire a mettere a fuoco alcuni motivi che stanno dietro i tanti rifiuti, le tante dimissioni, le tante diffidenze ad accettare un lavoro che oggi registriamo.

Lavorare per vivere, non vivere per lavorare. Oggi ancora di più ci sembra l’auspicio a cui tutti dovrebbero poter ambire. Un lavoro che ti permetta di sostenerti e di sentirti utile e prezioso, un lavoro che, non solo grazie alle nuove tecnologie, potrebbe vedere un orario ridotto in grado di lasciare spazio ad un maggiore tempo per sé, un tempo ritrovato da curare, inventare e a cui imparare a dare valore.

SCUOLA SOCIETÀ sognando futuri possibili di Sefora Giovannetti e Mauro Meschini

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