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lunedì, 9 Settembre 2024

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La scuola del “rivoluzionario” Don Lorenzo Milani

Arezzo ha ricordato don Lorenzo Milani a cento anni dalla nascita (27 maggio 1923), in un incontro organizzato presso la sala della curia vescovile ad Arezzo. Per l’occasione è stato presentato il libro “Don Milani vita di un profeta disubbidiente” scritto dal giornalista Mario Lancisi. Ci fa piacere parlare, anzi tornare a parlare di don Lorenzo. Fiorentino di nascita, in un primo momento costituisce una scuola “popolare” a San Donato, nei pressi di Prato. Gli intenti del parroco, gli obiettivi inconsueti per l’epoca, lo rendono personaggio scomodo e per questo motivo viene trasferito, nel 1954, a Barbiana, nel Mugello, una frazione assai isolata. Da subito gli intenti manifestati a Prato nella prima scuola riemergono ed egli tenta di portare e diffondere cultura a tutti gli abitanti del piccolo paese, specialmente coloro i quali si trovavano in condizioni di disagio. Quindi istituisce una seconda scuola popolare, con addirittura anche un doposcuola, che nel 1956 diventa un avviamento industriale, una scuola cioè successiva alle elementari.

Nelle sue scuole don Milani attua sin da subito una pedagogia fondata sull’importanza della parola e del dialogo. La cosa più importante per i ragazzi e per i bambini, sin dalla tenera età, doveva essere l’interazione, cioè l’atto comunicativo. Quale miglior luogo per diffondere una tale didattica se non la scuola popolare, che assume il ruolo di mezzo attraverso il quale difendere i diritti di tutti, in special modo dei più bisognosi, ai quali doveva essere riconosciuto il diritto all’istruzione. Tale diritto, se pur riconosciuto chiaramente dalla Costituzione italiana, pur tuttavia spesso e volentieri all’epoca veniva disatteso. Don Milani se ne fa difensore, non solo tutti hanno bisogno di una istruzione, ma tutti devono diventare padroni della parola, in modo tale da potersela cavare in ogni situazione.

La pedagogia di don Lorenzo, come si evince, non ha come obiettivo la pura dissertazione filosofica, ma la pratica. La realizzazione di obiettivi concreti. Il possesso della parola riesce a trasformare un individuo in un vero e proprio essere umano, il quale, solo e soltanto con la parola riesce a inserirsi nel proprio contesto sociale. La scuola per Milani diviene quindi un luogo di aggregazione ove dare la parola a tutti. Dove anche gli individui appartenenti a ceti più disagiati potevano esprimere la propria opinione. Altro passaggio fondamentale, sta nel fatto che la scuola popolare, pur basandosi su tali requisiti, non era di certo facile, era una scuola seria che riconosceva l’insegnante nella propria autorevolezza.

A differenza della scuola pubblica, quella di Barbiana, non contemplava la bocciatura, inoltre, come detto, lo studio della lingua rappresentava una buona opportunità per gli allievi per imparare a muoversi nel tessuto sociale. Lo studio della lingua implicava lo studio della scrittura, onde evitare di incorrere in errori e di essere incapaci di interpretare testi importanti nella vita come i contratti da sottoscrivere. La scrittura assumeva un ruolo fondamentale, agli scritti veniva dedicato molto tempo, specialmente a quelli che dovevano essere spediti esternamente. Famosa è la ormai conosciuta “Lettera ad una professoressa” dove si critica l’atteggiamento tipico dell’insegnante burocrate, che non ha attenzione per gli allievi più in difficoltà, per quelli più svantaggiati da un punto di vista sociale e culturale, per quelli che, essendo indietro, chiedono aiuto. Milani struttura la sua scuola popolare sul singolo, sulle esigenze del singolo, non ci sono bocciature, ma neppure programmi da dover svolgere correndo. Si partiva sempre dal’esperienza del ragazzo, dall’esperienza del gruppo e, in base a questo, si sceglieva l’argomento da svolgere che spesso non riguardava solo la scuola, ma l’ambiente di vita quotidiana in cui vivevano.

Bene, è con questo excursus che vogliamo ricordare don Milani, con una scuola improntata sull’allievo, sul valore dell’individuo, con l’importanza della comunicazione, non fine a se stessa ma utile per inserirsi nel mondo sociale e quindi lavorativo. Anche le nostre scuole devono perseguire tali intenti, perché il periodo scolastico serva non tanto a memorizzare più e più nozioni ma sia necessario a strutturare la propria integrità. Sefora Giovannetti

Il 27 maggio 1923 nacque don Lorenzo Milani, un prete scomodo e, anche se questa definizione a lui probabilmente non piacerebbe molto, «rivoluzionario». Ma nessun atto di forza caratterizza la sua vita e sicuramente non sosteneva le idee e i valori della sinistra che fin da giovane anche io mi sono trovato a condividere. No, come più volte anche lui si è trovato ad affermare, non era comunista, anzi… Nonostante questa sua convinzione ho sempre considerato la sua testimonianza, la sua vita, i suoi pensieri, dei punti di riferimento irrinunciabili e proprio di don Milani mi sono trovato a parlare durante il mio colloquio orale dell’esame di maturità, l’argomento che forse conoscevo meglio di tutto il programma svolto in cinque anni.

L’esempio del priore di Barbiana da solo rappresenta molto di più di tanti improbabili proclami politici, perché è tangibile, è coerente, è stato presente ed è presente nei luoghi e nelle persone che lo hanno visto affrontare con caparbietà e determinazione l’ingiustizia, l’indifferenza, la violenza. «Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra diversi». Questa frase scritta in “Lettera ad una professoressa” riassume una visione del mondo che guarda agli ultimi, che fa propri gli insegnamenti del Vangelo e che, aggiungo io, non può non essere sostenuta da chi sente sinceramente come proprie le difficoltà e le sofferenze degli altri.

Quanta umanità e lungimiranza c’è in quelle parole, la semplice constatazione di quanto sarebbe fondamentale dare l’opportunità e mettere in grado tutti di essere nelle condizioni di dare il loro contributo alle cause comuni. Per fare questo è sufficiente che i più fortunati, spesso non per merito loro, facciano un passo indietro, che non impedisce a loro di godere di benefici e possibilità e allo stesso tempo apre la strada anche a chi è indietro e fatica.

Mi viene in mente l’idiozia della flat tax, l’idea incostituzionale proclamata ai quattro venti come la soluzione di tutti i problemi, don Milani l’avrebbe considerata probabilmente un sacrilegio un esempio di egoismo e ingordigia. Nella scuola di Barbiana è ancora presente quella breve e preziosa scritta, spesso citata dai più ma che dovrebbe essere trattata con leggerezza e rispetto: «I care». Una scritta in inglese perché don Lorenza già allora aveva capito di quanto sarebbe stato importante avere la possibilità di comprendere e dialogare non solo in casa propria ma con tutto il mondo, una scritta che sottolinea ancora una volta quanto sia importante non girare lo sguardo, non essere indifferenti, non pensare che quello che affligge gli altri non sia un nostro problema. Una scritta e una convinzione che, lo stesso don Milani non rinuncia a ricordare, «È il contrario esatto del motto fascista “Me ne frego”».

Forse quella spinta verso il prossimo e verso tutto quello che interessa tutti lo avrebbe portato oggi anche a condividere l’attenzione di Papa Francesco per il destino del nostro Pianeta e di tutti gli esseri viventi che lo abitano, in fondo non è un mistero che proprio la sete malata di ricchezza e di potere, l’irresponsabilità e l’indifferenza siano tra i motivi dei disastri ambientali ed ecologici di cui l’umanità si è resa responsabile.

Assumersi le responsabilità per don Milani significava anche sapere disobbedire, essere capaci di rompere consuetudini e convinzioni, rifiutare ordini e direttive criminali. La gogna giudiziaria che fu costretto a subire per le parole che aveva avuto il coraggio e la forza di pronunciare nella sua lettera ai cappellani militari rappresenta ancora oggi una vergogna. Le parole di don Lorenzo scritte in quell’occasione e per il processo sono invece tremendamente e drammaticamente attuali.

In un mondo dove, ancora oggi, si costruiscono muri, si alzano barriere, si mettono l’uno contro l’altro i popoli non esita a scrivere: «Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro».

In un mondo che aveva visto da poco gli orrori della bomba atomica e che, allora e purtroppo anche oggi, continua a credere che sulla forza delle armi si possano continuare a costruire le relazioni tra gli Stati afferma con i suoi ragazzi: «Abbiamo dunque preso i nostri libri di storia (umili testi di scuola media, non monografie da specialisti) e siamo riandati cento anni di storia italiana in cerca d’una ‘guerra giusta’. D’una guerra cioè che fosse in regola con l’articolo 11 della Costituzione. Non è colpa nostra se non l’abbiamo trovata».

E ancora: «Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto. Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri».

Lo sciopero, il voto, prendersi cura, il rispetto delle idee, la giustizia sociale, la pace, la responsabilità… basi su cui costruire il mondo! Mauro Meschini

(Rubrica “Scuola Società” sognando futuri possibili di Sefora Giovannetti e Mauro Meschini)

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