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venerdì, 19 Aprile 2024

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La vita in un click, i ritratti di Gian Carlo Mazzetti

di Elisa Fioriti – “La mia terra negli occhi”. Era questo il titolo della mostra allestita nel centro storico di Corezzo nei giorni della “Festa del tortello alla lastra”: persone, tutte del Casentino, che lì si raccontavano, non a parole, ma attraverso l’immagine del loro volto, ritratto in uno scatto, catturato e immortalato dall’obiettivo di Gian Carlo Mazzetti, nella vita operaio in arte fotografo. E adesso è venuto il suo turno…
La sua mostra innescava un curioso gioco di sguardi: possono i luoghi riflettersi nelle persone che vi abitano? «Ne sono convinto. Gli occhi sono la porta dell’anima. Il volto di ciascuno racchiude in sé le tracce di una storia, la propria, e conserva i segni, non sempre di facile lettura, delle esperienze vissute. Il volto dà forma e voce alla nostra identità. Ed era l’identità del Casentino, la mia terra, che volevo mostrare. L’ho fatto dal mio punto di vista naturalmente, con uno sguardo panoramico definitosi sia nella scelta dei soggetti da fotografare sia nella selezione delle foto da esporre. Sguardo, però, non univoco. Come suggerisce il titolo della mostra (e per lo spunto ringrazio l’amico Mario Cavigli), gli occhi che riflettono l’identità del luogo sono anche quelli delle singole persone ritratte. E volendo anche quelli dei visitatori venuti a Corezzo, che nell’osservare erano liberi d’intrepretare».
Le persone sono sempre al centro del suo obiettivo? «Assolutamente sì. Non c’è paesaggio o panorama, per quanto mozzafiato, che possa affascinarmi più dell’universo umano. E ne ho visti di posti durante i miei viaggi in giro per il mondo. Fin dall’età di vent’anni viaggiare è l’altra mia grande passione: sono stato in America Latina, Messico, Guatemala, Bolivia, Perù, Cile, nel sud-est asiatico, Vietnam, Cambogia… viaggi un po’ all’avventura, giusto i biglietti d’aereo prenotati, zaino in spalla e via! Eppure, ogni volta che arrivo in un posto nuovo, la primissima cosa che devo vedere quale è?»
Non credo d’indovinare…  «Il mercato. Ho bisogno di immergermi fra la gente, vivere l’atmosfera locale vera, stare a contatto con gli altri, conoscere, comunicare. E la fotografia è un potente mezzo di comunicazione».
Generalmente, chi incontra si lascia mettere in posa e fotografare volentieri? «Forse sarà che all’esterno è ben percepibile l’emozione pura che provo quando scatto una fotografia: mi dicono, e ne sono orgoglioso, che scatto con il cuore. O forse sarà che riesco a trasmettere serenità e sicurezza, facendo sentire perfettamente a suo agio chi sta di fronte a me. E alla mia macchina fotografica. Il normale imbarazzo che potrebbe suscitare la presenza dell’attrezzatura, l’eventuale cavalletto, le luci artificiali… svanisce. Si viene a creare un legame, una sincera sintonia. Avverto tutta la responsabilità nel ricevere e accogliere l’immagine di un altro: è un dono, un atto di fiducia. Addirittura c’è chi mi chiede spontaneamente di essere fotografato: capita spesso, quando sono in giro a fare foto, quelle che ho in progetto di realizzare…».
Perché le sue sono foto studiate, precostruite? «Parto dall’idea che ho in mente dell’immagine che desidero rendere e su questa idea mi oriento nella scelta di soggetti, luoghi, tagli e posizioni, luci: la composizione dell’immagine non è casuale, i dettagli sono significativi. Ritraggo solo ciò che mi colpisce, che mi evoca qualcosa. Tipo… ero intenzionato a fotografare un abitante di Partina che aveva accettato di posare per me: studiando il luogo, ho individuato il posto giusto, nel borgo del paese, vicino al teatro, davanti un portone di legno con le nervature ideali, e lì l’ho condotto… ma dopo giorni e giorni di prove per decidere quale fosse l’orario migliore, affinché la luce naturale fosse perfetta, con l’ombra a tagliare l’immagine come volevo io. La sfida, del resto, è riconoscere l’immagine adatta a incarnare l’idea che si desidera comunicare con l’arte fotografica. Serve un certo occhio: saper vedere oltre, sentire le cose. In parte, è una dote innata».

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Da un caso imprevisto sono nate foto speciali? «Foto di livello possono nascere da un’improvvisa ispirazione, quando ci si imbatte in un soggetto interessante, evocativo, neanche avessimo fatto ore d’appostamento, o per un caso fortuito, venendosi a trovare nel posto adatto al momento adatto. Come la fotografia che ho utilizzato per la locandina della mostra di quest’anno, il terzo di seguito in cui espongo a Corezzo i miei lavori. Ricordo precisamente l’istante: ero al battesimo del nipote di quell’uomo (conoscendo la famiglia stavo facendo io le foto) e, all’uscita dalla chiesa, vedo un fascio di luce colpirgli il volto… ideale… ho dovuto fermarlo, scattare subito! È successo, in un’occasione diversa, con il mio cane, ripreso, fermo immobile, nell’attimo di malinconica dolcezza in cui gli scendeva sul musetto una lacrima. Fin da cucciolo è stato uno dei miei modelli prediletti, lui e mia nonna, che amo molto: con pazienza si facevano fotografare e rifotografare, permettendomi di testare gli strumenti, sperimentare nuove tecniche…».
E di forgiare il suo stile? «Certo, seppur continuo a mettermi alla prova e a esercitarmi. Se si eccettua il corso di base che ho fatto a Bibbiena per apprendere i rudimenti della fotografia, ho imparato quasi tutto da autodidatta, osservando, per poi darmi alla pratica, centinaia di fotografie al giorno: dalle opere di grandi maestri e professionisti del settore alle immagini di appassionati e dilettanti della rete, senza pregiudizi a limitarmi. L’osservazione, infatti, aiuta a capire gli errori e a correggerli, oltre a stimolare la creatività. I famigerati selfie, credo, siano l’unica tipologia di foto che stento un po’ ad apprezzare…».
C’è un motivo specifico? «Per quanto questa sia l’era dei Social, sembra che tendiamo a essere sempre meno “sociali”, meno socievoli: stiamo perdendo il contatto umano, il piacere della comunicazione reale, dell’incontro e dello scambio con l’altro. Lo si vede anche nel campo della fotografia: è cambiata la concezione dell’album di foto, della foto-ricordo, delle foto in vacanza… Chi ti chiede più: “Ehi, scusa, mi faresti una foto?”, passeggiando per strada. Stiamo diventando troppo auto-referenziali, egocentrici. E pensare che ho iniziato ad amare quest’arte grazie a quei momenti di ritrovo che eravamo soliti organizzare in famiglia al termine delle vacanze o per ricorrenze particolari, per stare insieme e condividere “di persona” le nostre foto. Se ne occupava mio babbo: sistemava il proiettore e montava il pannello su cui mostrare le diapositive, lì nella sala, buia. Era una sorta di rito, lui ne era il sacerdote. Trent’anni sono passati, ma dentro di me risuona, come fosse allora, il suono… cla clack, cla clack… dello scorrere delle diapositive».
Una passione di famiglia? «Da bambino avevo la mia macchina fotografica, una compattina, che portavo con me quando andavo in gita scolastica. Mio babbo, invece, aveva una macchina d’altro genere, a pellicola, ben più complessa, con un’infinità d’impostazioni manuali: mi incuriosivo nel vedergliela sistemare e usare, mi pareva un’impresa straordinaria! Speravo d’impadronirmi di quell’arcano sapere…».
Altri sono stati per lei un punto di riferimento, dei mentori? «Mia somma guida nella fotografia di ritratto è Steve McCurry. Però faccio riferimento anche a registri di cinema, quali il francese Robert Guédiguian e il britannico Ken Loach (scoperti entrambi durante le rassegne a Soci di film d’essai), per come indagano la figura umana e per come affrontano le tematiche sociali. La mia, comunque, resta una fotografia semplice, d’impatto immediato, non concettuale. E in bianco e nero, con giochi di chiaroscuro, contrasti netti, definiti: secondo me, il colore non ha lo stesso fascino».
Fatte mai fotografie a colori? «Alcune (poche) ne ho in repertorio, ma non è seguendo tale direzione che mi esprimo pienamente. Magari è solo un periodo della mia attività, in futuro potrei cambiare stile. Tuttavia non sono disposto a scendere a compromessi: fotografo per passione, non per professione, pertanto intendo mantenere la massima libertà artistica e guadagnarmi l’apprezzamento della gente per come sono e lavoro.
All’inizio frequentavo gli ambienti dei circoli fotografici: il Club Fotografico Avis Bibbiena e il CIFA. Ora non più, salvo essermi avvicinato all’Associazione Fotografica Walter Soldani, fondata dal mio amico Mario Cavigli, tra i primi ad incoraggiarmi, riconoscendo in me del talento».
Vorrebbe che la fotografia diventasse la tua professione principale? «Finora mi ci sono dedicato nei ritagli di tempo, giostrandomi, non facilmente, tra i vari impegni quotidiani, scanditi dagli orari del lavoro in fabbrica. Però quanto mi attirerebbe l’idea di poter far questo come professione! Il che mi ha indotto ad aprire la partita IVA, per sviluppare concretamente una passione che è parte di me. Già mi è capitato per degli amici e conoscenti, che sanno della mia passione, avendo visto le foto che ho caricato su Instagram e sui profili di altri social network, di far loro le foto per qualche occasione; alcuni mi hanno invitato a farlo anche al proprio matrimonio! Un onore: mi lusinga che si affidino a me in un giorno tanto speciale. Ad ogni modo, prima di tutto viene la famiglia. Una delle mie foto preferite è il nostro ritratto insieme, in posa, una sera in campeggio: mio figlio al centro tra me e mia moglie; non vedo l’ora di fargli scoprire la bellezza di viaggiare e, ovviamente, la bellezza di fotografare».

(tratto da CASENTINO2000 | n. 299 | Ottobre 2018)

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