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martedì, 3 Dicembre 2024

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Le sfide in alta quota di Mauro Bertelli

di Francesca Corsetti – Anche se originario della provincia di Ferrara, Mauro Bertelli ha trovato nel Casentino la sua casa adottiva e il terreno ideale, o come direbbe lui la “palestra” perfetta, per una delle sue più grandi passioni: le corse in montagna. “Mi sono avvicinato alla corsa da quando sono qui. Adesso abito a Serravalle con le foreste sopra casa, ma ho sempre fatto mountain bike: la montagna era sempre presente perché ne sono sempre stato attratto. Ho iniziato ad avvicinarmi alla corsa con l’evento del Trail a Badia Prataglia nel 2017, anche se ho cominciato a correre l’anno successivo, ma avevo visto che mi piaceva. Vedevo questi “matti” che correvano 50 km. – ricorda ridendo, – anzi quell’anno 80 km, e stavano fuori fino a tardi: l’idea di star fuori al buio nelle foreste un po’ mi faceva paura, ma mi piaceva la sensazione di libertà e avventura che poteva darti”.

Come ha cominciato a dedicarsi a questo sport? «Ho iniziato da solo, mi ero trasferito da poco e non avevo punti di riferimento. In quel periodo camminavo già in foresta, perché la mia compagna aveva un cane: incuriosito, ho iniziato a portarlo per i sentieri anziché su strada. Poi a Serravalle mi diedero il contatto di un signore che faceva questo sport: “domenica si fanno 20 chilometri”, mi disse. Io allora camminavo, sì, ma 6-8 chilometri, però sono andato lo stesso. Era la primavera del 2018, e da quel momento è stato un continuo crescere. Quell’estate partecipai alla mia prima gara, il Trail del Falterona, in un’edizione speciale perché ospitava il campionato regionale. Erano 36 chilometri: mai fatti, e in effetti gli ultimi 10 li avevo camminati tutti. Avevo già la testa, ma non avevo ancora la struttura fisica».

A questo proposito, Mauro chiarisce come riuscire a stare soli in mezzo alla natura per molte ore sia fondamentale. In seguito, a settembre dello stesso anno, Mauro ha percorso la sua prima 50 chilometri, la Valdambra Trail, poi la 60 chilometri sul Monte Rosa. «La mia prima cento l’ho fatta nel 2021, in Svizzera, tutta diurna perché partiva alle 5 del mattino. Arrivai a mezzanotte. Però ancora non ero soddisfatto perché sentivo i racconti dei miei amici che stavano fuori più notti, e io volevo far quelle gare lì. Nel 2022, quindi, mi sono iscritto alla TDS – Traces des Ducs de Savoie (Sulle tracce dei Duchi di Savoia, n.d.r.) di 145km per 9 mila metri di dislivello». La gara è parte del circuito dell’Ultra-Trail du Mont-Blanc (UTMB) e si snoda tra Italia e Francia, con partenza da Courmayeur e arrivo a Chamonix. «La partenza era a mezzanotte ed è stato bellissimo perché potevi vedere la montagna disegnata dalle luci delle lampadine delle persone che correvano in fila indiana. Non finivano più. Ero molto emozionato perché sapevo che volevo essere lì, che era quello il mio posto!».

Tuttavia, il suo approccio alla gara rirultò influenzato dalla mancanza di esperienza nella gestione logistica e strategica di una corsa così complessa. «Mi ero dimenticato metà dell’occorrente, non avevo neanche le calze di ricambio, e poi ero solo: avere qualcuno che conosci aiuta non solo dal punto di vista psicologico, ma a livello organizzativo, perché quando arrivi alla base vita sei stanco e non sei abbastanza lucido per pensare a tutto…». Mauro racconta di aver visto famiglie di corridori che, ai punti di sosta, si occupavano di rifornire velocemente l’atleta, gestendo per lui cibo, cambio abiti e altro.

Arrivando a settembre di quest’anno, la gara più recente che Mauro ha affrontato è il Tor de Géants, ovvero il giro dei giganti, perché, spiega, “se finisci la gara, dicono che sei un gigante” e perché si svolge al cospetto delle montagne più alte d’Europa, come il Monte Bianco, il Monte Rosa, il Cervino e il Gran Paradiso. In effetti, è una gara di 350 chilometri tra le vette alpine, che percorre tutta la Val D’Aosta, con più di 24 mila metri di dislivello positivo. “Un po’ come scalare l’Everest più volte” dice Mauro, che ha concluso la gara in 126 ore su 150 a disposizione, sfidando condizioni climatiche difficili.

Come si affronta una gara così lunga? «In queste gare il primo giorno non si dorme mai, e neanche il secondo. Inizi a dormire dalla terza notte, ma al Tor, sapendo che ci aspettano tutti quei chilometri, ci si ferma. Il problema è che è difficile programmare il sonno, ed era troppo freddo per fermarsi lungo il sentiero. Infatti, tanta gente si è ritirata perché è stata male per colpa del freddo. Arrivare alla base vita è stato difficile. C’è poco da correre: il tuo pensiero è camminare, fermarsi a mangiare e fermarsi a dormire. La tua mente elimina tutto. Non mi ricordavo neanche il pin del bancomat! Questo perché il tuo corpo cerca di ottimizzare».

Abbiamo menzionato le avversità climatiche, ce ne parli meglio? «Le prime 24 ore è stata subito una strage: abbiamo avuto giusto il tempo di percorrere il viale da cui siamo partiti a Courmayeur e poi ha iniziato a piovere, e ha continuato a piovere per 30 ore consecutive. Il problema della pioggia poi arriva con la notte, che è lunga e fredda. Ed è sempre meglio affiancarsi a qualcuno per passare la notte, gli ultimi cinquanta chilometri sono stati una tragedia: ci avevano avvertito che avrebbe nevicato e di portare con noi i lampioncini, ma ci siamo trovati completamente senza visibilità. Eravamo in un gruppetto e stavamo aspettando per capire cosa fare: gli anni passati avevano bloccato la gara. Quest’anno non è successo, ci siamo fatti coraggio e siamo partiti tutti insieme. La temperatura era sui -8° e questo mi ha dato alcuni problemi ai piedi».

Oltre al tratto sotto la fitta neve, nel racconto di Mauro diversi episodi ci hanno colpito, in quanto racchiudono tutta la profondità e il fascino di queste gare estreme: il supporto reciproco tra corridori di ogni angolo del mondo, i legami nati lungo sentieri impervi e trasformati in amicizie solide e durature. Poi ci sono le allucinazioni che affiorano durante le lunghe notti, quando il corpo cede alla stanchezza e la mente si lascia trasportare dalla privazione del sonno, ricordando quanto la corsa sia anche una battaglia mentale. E ancora, i momenti di convivialità nei rifugi, dove il freddo viene scacciato dal calore delle persone del luogo e dalla semplicità della polenta locale, gustata con una gratitudine che solo la fatica può generare.

Ma per lui, uno dei momenti più emozionanti della gara è stato l’arrivo al Col Malatrà, a 3000 metri di altitudine, il valico simbolo del Tor dei Giganti. «Dopo giorni di cammino e corsa, arrivi a questo punto e ti si apre una vista incredibile sul Monte Bianco. In quel momento ho capito che ce l’avevo fatta. È stato un momento di commozione totale. Ho pianto, perché sapevo che mancavano solo 15 chilometri all’arrivo a Courmayeur».

È rimasto soddisfatto del risultato? «Viste le condizioni meteo, e il fatto che fosse la mia prima volta, è andata benissimo così. Detto da esperti, chi riesce a stare sotto le 130 ore ha fatto un buon Tor. Sicuramente in condizioni climatiche normali e conoscendo adesso i riferimenti, ci metterei molto meno». Un aspetto fondamentale che Mauro sottolinea è lo spirito che unisce i partecipanti a queste gare. Parlando dell’etica e dei valori che caratterizzano i corridori, afferma: «mi piace come sport anche perché sono tutti molto attenti all’ecologia. Sono tutte persone che fanno queste gare non tanto per la performance, ma per l’amore per le montagne. Devi avere amore per la natura e la montagna, ti deve piacere star da solo e condividere con gli altri allo stesso tempo».

Questo amore per la natura è il filo conduttore che lega gli atleti, che partecipano alle gare non solo per sfidare sé stessi, ma anche per immergersi nei paesaggi incontaminati che li circondano.

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