di Simone Borchi – Ogni volta che torna il 4 novembre la domanda che viene alla mente é: può risuccedere? Così la gente si divide tra scettici (può, può…) e ottimisti benpensanti (ma no, chissà quanto è stato fatto dal 1966…). Allora è opportuno esaminare, in modo corretto ma comprensibile a tutti, quale sia la situazione attuale, fra l’altro in un quadro meteorologico molto cambiato, con lunghi periodi siccitosi e precipitazioni concentrate in pochi eventi spesso intensi e con grandi volumi unitari.
Prima di tutto ricordiamo cosa successe in quel lontano 4, anzi 3 novembre, quando il torrente Roiesine in piena non venne più recepito dall’Arno e si riversò sulla strada, allagando Ponte a Poppi; qualche ora più tardi anche l’Arno esondò nel piano delle Tombe e poi negli altri luoghi lungo il suo corso a valle, fino ad allagare, nelle prime ore del 4, Firenze, dove la tipografia de “La Nazione” stampò un numero ridotto del giornale con il titolo “L’Arno straripa a Firenze”, prima di essere sommersa da 5 m di acqua. Il dramma della città, con la sua risonanza mediatica mondiale, unito ad un’acqua alta a Venezia di eccezionali proporzioni, oscurò quanto era successo nel resto della valle dell’Arno, nel grossetano e in altre parti d’Italia, ma le origini dell’alluvione fiorentina erano proprio in Casentino e nel Mugello, dove il fiume raccoglie gran parte delle acque prima di raggiungere il capoluogo regionale.
Dopo il disastro fu prontamente istituita una commissione interministeriale per esaminare la situazione idrogeologica di tutto il Paese e, al suo interno, l’ing. Giulio Supino presiedette il gruppo di lavoro che elaborò nel 1974 una proposta per la messa in sicurezza dell’Arno tramite costruzione di 23 invasi per la raccolta delle piene, di cui 17 a monte di Firenze, con una capacità di trattenuta di 240 milioni di metri cubi. A oggi è stato realizzato nel 2001 solo l’invaso di Bilancino, in Mugello, che da solo non potrebbe trattenere i 70 milioni di metri cubi che allagarono la città, ma che almeno ne ha finora garantito l’approvvigionamento idrico. Fra l’altro, l’esondazione a Firenze fu notevolmente mitigata da quelle nei territori a monte, considerato che l’onda alluvionale complessiva fu stimata in 200 milioni di metri cubi, con precipitazioni medie su tutto il bacino di 160 mm (160 litri per metro quadro) in poco più di un giorno. Il Piano Supino era dunque un progetto idraulico-matematico che si proponeva di “immagazzinare” gli eccessi delle piene, restituendoli nei periodi di magra.
Nel 1978 venne presentato il “Piano Lotti” ovvero il “Progetto pilota per la sistemazione del bacino dell’Arno”, con la stessa impostazione del piano Supino, che prevedeva invasi e casse d’espansione in grado di contenere 400 milioni di metri cubi, così da mettere in sicurezza tutto il corso dell’Arno nel caso di ripetizione dei volumi di pioggia del 1966. In Casentino il progetto elaborato dallo Studio Lotti di Roma prevedeva un invaso sul torrente Corsalone, riprendendo una proposta del Consorzio di Bonifica Casentino-Valdarno per fini idropotabili e di irrigazione, ma aumentando la capienza da 15 a 25 milioni di metri cubi e sommergendo Rimbocchi, per cui è finito nel dimenticatoio, mentre nella sua ipotesi iniziale potrebbe essere molto utile, anche se poco influente sulle piene dell’Arno e indifferente per il tratto del fiume posto a nord.
L’Autorità di Bacino ha poi elaborato un piano per la messa in sicurezza dell’Arno prima sotto la direzione del prof. Nardi e poi, con un notevole ridimensionamento, dell’ing. Menduni, basandosi sulla costruzione di 4 casse d’espansione nel Valdarno, di cui una realizzata, e 4 a valle di Firenze, di cui una realizzata, oltre all’innalzamento della diga di Levane, ancora non realizzato. Nel Casentino, in una seconda fase, sono previste casse d’espansione lungo tutta l’asta dell’Arno tra Pratovecchio e Castelluccio di Capolona, ovviamente nelle zone agricole, escludendo quindi le aree residenziali e industriali che, lungo tutto il corso dell’Arno dalla sorgente alla foce, per l’80% sono state edificate fra il 1967 e il 1974, occupando proprio le aree che il fiume aveva allagato e dimostrando quanto i nostri amministratori abbiano a cuore il territorio!
In Casentino dopo il 1966 non è stata realizzata nessuna opera idraulico-ingegneristica, neanche quell’invaso a monte di Stia, dove l’acqua dell’Arno è potabile, che secondo una proposta del Consorzio di bonifica poteva dare da bere a gran parte del Casentino, azzerando le folli spese per il pompaggio delle acque di falda dell’Arno. Quindi in Casentino può ripetersi un’alluvione, come peraltro in parte è successo nell’ottobre 1992, vista l’assenza di invasi di trattenimento delle piene e tenuto conto che le casse di espansione sono le stesse del 1966, se non ridotte a causa della costruzione di strade e altre strutture.
Ma cos’è una cassa di espansione? È un’area in cui, tramite un apposito passaggio negli argini che può essere fisso o manovrato, defluisce una parte delle piene del fiume, funzionando da deposito provvisorio, da cui poi le acque defluiscono dopo la fine della piena. Quindi la cassa deve avere degli alti argini, non inferiori a quelli del fiume, con impatto rilevante sul territorio qualora tutti gli argini dovessero essere sopraelevati rispetto a quelli attuali. Più è alto il livello dell’acqua immagazzinata, più aumenta il tempo di svuotamento, il rilascio di fango sui terreni e il danno all’agricoltura. Se le casse funzionano solo in caso di piena, gli invasi hanno un ruolo permanente di trattenuta dei volumi di piena e rilascio nei periodi di magra, con effetti benefici anche sull’ambiente fluviale e sulle falde; inoltre contribuiscono all’erogazione idropotabile e all’irrigazione agricola, con notevoli vantaggi economici e azzerando i prelievi in falda e nel fiume. Gli invasi però modificano fortemente il territorio, potendo creare anche nuove opportunità turistiche e ambientali, ma sottraendo terreni ad altri usi e con un pesante impatto del cantiere di costruzione.
Va spiegato il concetto di “tempo di corrivazione” che rappresenta il punto di massimo rischio per un’eventuale alluvione. Ogni fiume ha un proprio bacino, definito da tutti i terreni in cui l’acqua caduta scorre verso lo stesso fiume; una ipotetica goccia posta nel punto del bacino più lontano da una sezione qualunque del fiume impiega un certo tempo per raggiungere quella sezione e questo è il tempo di corrivazione. Quando la durata della precipitazione eguaglia il tempo di corrivazione, da quel momento tutta l’acqua che nell’istante cade nel bacino passa attraverso quella sezione del fiume. Gli altri fattori di rischio sono l’intensità della precipitazione ovvero le quantità cadute nell’unità di tempo, maggiore è l’intensità più grande è il rischio, e la durata delle precipitazioni, perché i terreni si saturano progressivamente e assorbono sempre meno acqua, mentre aumenta il deflusso superficiale.
Quindi, in presenza di precipitazione intensa su tutto il bacino e prolungata, il rischio di alluvione è massimo, cui si aggiunge la sempre maggiore imprevedibilità di questi eventi estremi, resi più frequenti dai cambiamenti climatici indotti dal riscaldamento dell’atmosfera. È intuitivo che l’aumento della velocità di scorrimento dell’acqua, ad esempio per impermeabilizzazione dei suoli dovuta a edificazione o altro, riduce i tempi di corrivazione, aumentando il rischio di eventi critici.
La messa in sicurezza del bacino casentinese dell’Arno non dipende però dalle sole opere idraulico-ingegneristiche, peraltro non realizzate, ma anche da interventi manutentori, opere di piccola regimazione agricolo-forestale, salvaguardia dei terreni fertili e quindi della loro permeabilità. Quest’ultimo aspetto ricomprende la problematica dell’espansione edilizia in genere e in particolare dell’edificazione delle aree allagabili; la piana casentinese è ormai gravemente alterata da un proliferare di aree artigianali-industriali che hanno invaso gran parte del fondovalle secondo una logica puramente localistica, con danno per le stesse attività imprenditoriali che non hanno a disposizione quelle 2-3 aree in cui potevano essere concentrati servizi e strutture. Anziché cessare questa dissennata e diseconomica distruzione del territorio, le amministrazioni comunali insistono con gli interventi di “completamento” ovvero di ulteriore edificazione sia industriale che residenziale, concependo le varie circonvallazioni come recinto di ulteriori espansioni edilizie e così aumentando la distruzione dei terreni fertili e la loro impermeabilizzazione, con deflussi superficiali sempre più ingenti e rapidi.
Questa politica è ancora più assurda se consideriamo il sostanziale stallo dell’economia casentinese e il progressivo e continuo decremento demografico, per cui la nuova edificazione ha perso qualsiasi giustificazione sociale, bastando il recupero e riuso degli stabilimenti industriali dismessi ed essendo molto sovradimensionata la potenzialità residenziale.
Dopo l’alluvione del 1992 il settore forestale della Regione avviò un cospicuo e duraturo progetto “Fiumi puliti” allo scopo di mantenere gli alvei sgombri dalla vegetazione arborea, evitare ostacoli ai deflussi e prevenire l’occlusione della luce dei ponti per mezzo di alberi stradicati dalla violenza delle acque. Questo progetto era stato anticipato negli anni precedenti dalla Comunità Montana del Casentino, che allora aveva anche le funzioni di bonifica montana, e viene ora proseguito dal Consorzio Alto Valdarno, sempre con modalità rispettose degli ambienti e dell’avifauna ripariale. È importante proseguire in quest’opera di manutenzione per garantire l’efficienza del cosiddetto reticolo idrico minore, che ha un ruolo fondamentale nelle alluvioni ed è il primo a esondare.
Per quanto riguarda le opere di regimazione agricola il problema non riguarda tanto i terreni coltivati nel piano, che in genere mantengono le sistemazioni idraulico-agrarie, ma i terreni agricoli abbandonati in particolare collinari e montani. Qui le sistemazioni non sono più efficienti, a cominciare dai fossi di guardia e da quelli di scolo, l’assenza di lavorazioni rende il terreno meno permeabile e aumenta la quantità dell’acqua di scorrimento e la sua velocità, mentre l’abbandono provoca spesso smottamenti e piccole frane che possono ostacolare o deviare i corsi d’acqua, con possibili danni anche alle abitazioni, alle strutture e alle strade.
Ma la grande maggioranza del bacino casentinese dell’Arno è coperta da boschi, purtroppo, almeno per gli oltre 13.000 ettari di proprietà pubblica, abbandonati (Stato) o con insufficiente coltivazione e manutenzione (Regione). Nella proprietà privata convivono situazioni di abbandono, collegate a proprietà troppo piccole e ad assenteismo in genere, e situazioni di coltivazione sia regolare sia discontinua, in cui però scarseggiano le manutenzioni alle strutture, soprattutto piste di esbosco e strade forestali, o sono eseguite solo in presenza di interventi di coltivazione, magari a distanza di 10-20 anni e anche più. Va chiarito che non risulta scientificamente una correlazione tra abbandono del bosco e riduzione della sua efficienza idrogeologica, anche se in merito non sono note sperimentazioni di lungo termine, ma è un dato di fatto che almeno negli ultimi venti anni sono aumentati i deflussi superficiali in margine ai boschi e i piccoli dissesti localizzati.
Questa situazione è da addebitare indirettamente alla riduzione delle attività selvicolturali, che comporta una minore presenza degli operatori in bosco e quindi la riduzione della manutenzione, in particolare delle vie d’esbosco e delle strade di servizio, nonché la tempestiva riparazione di piccole frane e smottamenti che ormai punteggiano la viabilità forestale.
La soluzione sta nella presenza permanente e frequente degli operatori forestali, con una coltivazione assidua, estesa sulla maggior parte delle superfici boschive, con regolare manutenzione ordinaria del sistema viario forestale e tempestivi interventi di ripristino dei piccoli dissesti. Tutto questo può sussistere solo se l’economia forestale ha garantita la continuità in un contesto vincolato, ma di certezza degli interventi, che concilia economia ed ecologia ed è garante della conservazione di quei complessi forestali che proprio i selvicoltori hanno contribuito a creare e aiutato a crescere.
Una selvicoltura dinamica e quantitativamente rilevante ha inoltre il vantaggio di formare e mantenere aggiornato professionalmente personale tecnico e operai specializzati che possono essere utilizzati anche per gli interventi di bonifica idraulica e in particolare per quelli realizzati con metodi di ingegneria naturalistica, sia in amministrazione diretta che in appalto a imprese, preferibilmente locali, per conservare il rapporto fra residenti, lavoratori e territorio.
Aspettando quelle opere idraulico-ingegneristiche che possano mettere in sicurezza l’Arno casentinese, senza alterare paesaggio, coltivazioni e ambiente, possiamo fare molto per migliorare la situazione attuale e, prima di tutto, per non peggiorarla ulteriormente.